RAVASI ALLA BIENNALE NON PORTA QUEL CHE AVREBBE VOLUTO

Lucio Fontana, Via Crusis (X stazione), 1947.
Lucio Fontana, Via Crusis (X stazione), 1947.

Niente Kounellis, niente Kapoor, niente Bill Viola. Non ci sarà neanche il tema della Genesi. Ci saranno, probabilmente, Josef Koudelka, Lawrence Carroll, Lucio Fontana (che sarebbe stato ripescato dopo il ritiro dell’artista colombiana Doris Salcedo) e un altro artista che resta ancora avvolto nel mistero. A riferirlo è il Corriere del Veneto che cita tra le sue fonti il blog il Francesco Colafemmina. Come andranno veramente le cose lo si saprà solo il 14 maggio, giorno della presentazione ufficiale del Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia 2013.

Le cose, evidentemente, non sono andate come avrebbe voluto il cardinale Gianfranco Ravasi che dal 2008 si dice convinto della necessità della presenza della Santa Sede alla maggiore manifestazione di arte contemporanea del mondo.

Josef Koudelka e Lawrence Carroll sono certamente grandi nomi, magari non quelli che ci si sarebbe aspettati viste le dichiarazioni rilasciate in passato da Ravasi. Altrettanto certo è che la proposta di un tema non è stato raccolta dal mondo degli artisti. Nulla si sa sulle ragioni che avrebbero portato Doris Salcedo a rinunciare alla sua partecipazione. Il Corriere dice che si era pensato di portare Shibboleth, l’opera che l’artista istallò nel 2007 nella Turbin Hall della Tate Modern di Londra. Ma davvero si pensava di riproporre quella stessa opera negli spazi ristretti dell’Arsenale? Io ne dubito fortemente. La possibilità che artisti di caratura mondiale accettino di coinvolgersi con una committenza così prestigiosa (ma così esigente) non è affatto scontata. Anzi.

E la Via Crucis di Lucio Fontana? A me pare una buona idea, anche se di ripiego. Sottolineare da una ribalta così importante, che quello che viene considerato il maggior artista italiano del secondo Novecento ha realizzato una serie di opere a tema esplicitamente religioso, è comunque un’operazione interessante. Sulla polemica circa l’eventuale acquisto dell’opera da parte della Santa Sede e i relativi costi, non so cosa dire: portare all’Arsenale quella Via Crucis non impone che l’opera venga comprata. Ma forse la sovrapposizione delle due operazioni non era prevista.

Tutto questo ammesso e non concesso che il Corriere sia bene informato.

UPDATE (4 maggio 2013)

Il Pontificio Consiglio della Cultura ha finalmente annunciato la conferenza stampa di presentazione del Padiglione della Santa Sede alla Biennale (14 maggio, ore 11,30, sala stampa vaticana). Qui trovate il comunicato in cui viene confermato il tema della Genesi. 

I DUE VECCHI DI RON MUECK DA CARTIER

Ron Mueck, Couple Under An Umbrella, 2013, Fundation Cartier.

Ron Mueck, Couple Under An Umbrella, 2013, Fundation Cartier, Paris.
Ron Mueck, Couple Under An Umbrella, 2013.

Forse mi piace perché è un artista piacione. O forse perché davvero è uno che riesce a dire qualcosa. Direte: è uno che piace alla gente che piace e quindi bisogna farselo piacere, guarda dove espone, a Parigi alla Fondazione Cartier

È invece dico che Cartier si merita le opere di Ron Mueck, perché sono veri gioielli.
Fosse uno dei tanti iperrealisti non mi interesserebbe. Le sue figure, i suoi corpi, sono sempre fuori scala: o troppo grandi o troppo piccoli. Così il realismo va a farsi benedire. C’è una generosità di ispirazione che eccede la perfezione formale (che pure c’è).

Guardate questi due anziani che si riparano sotto l’ombrellone. Monumentali. Lei guarda lo con tenerezza. Lui appoggia un braccio sulla fronte. Non guarda nulla per riposare lo sguardo.Con l’altra mano le tiene il braccio, in un gesto di abbandono. C’è una complicità, una fierezza. Un amore maturo. Coraggioso. Monumentale, appunto.

A JEFF WALL MANCA IL COLPO DEL KO

Jeff Wall, Young man wet with rain (2011), Pac, Milano
Jeff Wall, Young man wet with rain (2011), 284x158 cm.

Capitò che quando i coniugi Becher andarono in pensione e lasciarono vacante la gloriosa cattedra di fotografia all’Accademia di Dusseldorf, venne chiamato a sostituirli Jeff Wall. L’avventura del fotografo canadese durò poco. Ci fu uno studente che alla prima occasione gli puntò contro una pistola carica. Non premette il grilletto, ma il gesto fu sufficiente per far capire a Jeff Wall che doveva cambiare aria. E si dimise.
Forse il gesto fu un po’ eccessivo, ma rese bene l’idea della distanza tra i mondi della Scuola di Dusseldorf e quello di Jeff Wall. Si tratta in entrambi i casi di fotografia al servizio dell’arte concettuale, o arte concettuale che si fa fotografia. Quel che fa la differenza, secondo me, è la dimensione della narrazione. Completamente assente nel magistero dei Becher e costitutiva nello stile di Wall.
Detto questo, sono andato con molta curiosità a vedere Actuality, la mostra di Jeff Wall al Pac di Milano e curata da Francesco Bonami. La cosa che si capisce dopo quaranta secondi passati in mostra è che nessun catalogo può restituire anche solo minimamente l’impatto delle immagini costruite da Wall. È un po’ come, si parva licet, pretendere di capire La zattera della Medusa senza trovarsi di fronte ai suoi sette metri di larghezza. Questo capita anche alle immagini non retroilluminate, come Young man wet with rain (2011) o Band & crowd (2011).

La perizia tecnica di Wall è davvero notevole. L’idea dei lightbox (praticata almeno dal 1975) è affascinante. La ricerca della composizione colta, fatta di geometrie e citazioni dalla storia dell’arte, è intrigante. Eppure, almeno nella mostra del Pac, Wall non è riuscito a mandarmi al tappeto. Ho l’impressione che le sue immagini siano in grado di rimetterti in moto la testa, ma non il cuore.

MATISSE IMMORTALATO IN BIANCO E NEROMATISSE IMMORTALIZED IN BLACK AND WHITE

A gennaio sono stato a New York e ho visto al Metropolitan Museum “Matisse – In search of true paintings”. Una mostra straordinaria, davvero. Jerry Saltz l’ha definita una mostra «inebriante, potenzialmente pericolosa». Le curatrici, Dorthe Aagesen e Rebecca Rabinow, hanno scelto di presentare Matisse come un pittore di ricerca, mai soddisfatto dei propri risultati.

Negli anni Trenta il pittore sceglie di far fotografare le fasi del proprio lavoro. Lydia Delectorskaya raccontava che il fotografo veniva chiamato «quando, alla fine di una sessione di lavoro, a Matisse sembrava di essere arrivato alla fine del lavoro o decideva di essere arrivato a uno stadio significativo».

Nel dicembre del 1945 decide di mostrare al pubblico il “dietro le quinte” del suo lavoro e, alla Galleria Maeght di Parigi, espone alcune sue opere accostate alle fotografie delle fasi del lavoro. Alcune di queste “istallazioni” sono riproposte nella mostra di New York.

In un’intervista proprio del 1945 Matisse spiegava: «Ho la mia idea in testa, e voglio realizzarla. Posso, molto spesso, riconcepirla. Ma so dove voglio andare a parare. Le foto scattate durante l’esecuzione dell’opera mi permettono di sapere se l’ultima esecuzione si avvicina di più a ciò che sto cercando più rispetto alle precedenti. Mi fa capire se sto avanzando o retrocedendo».

Prendiamo il caso de Il Sogno del 1940. Di questo quadro vengono scattate 14 immagini. La prima è del 7 gennaio, l’ultima del 19 settembre. Nove mesi di gestazione. È impressionate vedere quanto lavoro, quanto pensiero ci sia dietro un’immagine che, a prima vista, sembra la quintessenza della spontaneità. La mostra di New York dimostra che questo lavorìo, tecnico e di pensiero, era costitutivo del modus operandi di Matisse.

Henri Matisse, il Sogno, 1940
Henri Matisse, il Sogno, 1940

In January I was in New York and I saw at the Metropolitan Museum “Matisse – In search of true paintings”. A extraordinary exhibition, really. Jerry Saltz called it a show «intoxicating, potentially dangerous». The curators, Dorthe Aagesen and Rebecca Rabinow, have chosen to present Matisse as a painter of research, never satisfied with their results.

In the Thirties the painter chooses to photograph the stages of their work. Lydia Delectorskaya said that the photographer was called «when, at the end of a session, it seemed to Matisse he had arrived at a significant stage.»

In December 1945 he decided to show the public the “behind the scenes” of his work and, at the Maeght Gallery in Paris, he exhibited some of his works juxtaposed with photographs of the stages of labor. Some of these “installations” are repeated in the New York exhibition.

In an interview in 1945 just Matisse explained: «I have my conception in my head, and I want to realize it. I can, very often, reconceive it. But I know where I want to end up. The photos taken in the course of the execution of the work permit me to know if the last conception conforms more to what I am after than the preceding ones, whether I have advanced or regressed.»

Take the case of The Dream, 1940. Fourthteen photos are of this painting. The first is from January 7, the last of September 19. Nine months of gestation. It is impressive to see how much work, how much thought is behind an image that, at first glance, seems the quintessence of spontaneity. The exhibition in New York shows that this intense activity, technical and of thought it was constitutive of Matisse’s modus operandi.

Henri Matisse, il Sogno, 1940
Henri Matisse, il Sogno, 1940

I DUE PICASSO DI GIOVANNI TESTORI

Pablo Picasso, Corrida: la morte del torero, Boisgeloup, 19 settembre 1933
Pablo Picasso, Corrida: la morte del torero, Boisgeloup, 19 settembre 1933


A Palazzo Reale per la mostra di Picasso le cose paiono andare molto bene. L’obiettivo dei 500mila pare sarà superato. Bene. È una bella mostra e chi non è ancora riuscito ad andarci vada (magari così).
Io invece ho ritrovato nell’archivio dell’Associazione Giovanni Testori due articoli che lo stesso Testori pubblicò sul Corriere, scritti in relazione alle opere in mostra a Milano. Il primo è del 1979 e si riferisce alla mostra al Grand Palais di Parigi realizzata con i quadri che gli eredi di Picasso cedettero allo Stato francese «in pagamento dei diritti di successione». Il secondo è del 1985 ed è scritto per l’inaugurazione del Museo Picasso all’Hôtel Salé realizzato con le stesse opere.

I due articoli sono molto belli. Entrambi riconoscono il genio di Picasso. Eppure vi troviamo due Picasso diversi. Eccoli

Corriere della Sera, 4 novembre 1979
Una cosa, infatti, può dirsi con certezza: ed è che Picasso ebbe a ricevere in dono due delle caratteristiche proprie a tutti i veri geni. La prima consiste nella staticità, per cui ogni movimento, per avventuroso e funambolico che appaia, ricade sempre nel nucleo di partenza (e questo risulta tanto più evidente quanto più il maestro s’affanna a voler illudere sé e gli altri del contrario); la seconda consiste nell’ovvietà, in quel non temere di prener tra mano il cosiddetto «luogo comune», anzi di riconoscerlo come il proprio unico terreno e il proprio unico dominio (fatto, questo, in cui personalmente penso risieda la più grande ed attiva lezione di Picasso; sempre, ma, in modi drammatici e particolari, ai nostri giorni in cui tutto va a evidenza ricominciato).

Su queste due constatazioni di base non è possibile nutrir dubbi. Si deve, anzi, procedere e riconoscere che quei doni Picasso di ebbe come nessun altro; almeno nel nostro secolo e per ciò che riguarda il regno dell’espressività. Senonché tali componenti, private come furono della terza, han dato luogo a una sorta di potenza smisurata, dilatantesi all’infinito ma che vacillò, poi, di continuo e di continuo si sgonfiò, come una vescica, franando su se stessa; una potenza urlata e insieme afona, ingombrante proditoria e, insieme, ridicola, inane, vuota.

Più che d’una potenza si trattò, forse, del suo specioso e grandeggiante involucro. Il fatto che, del genio, Picasso non ebbe in carico o in dono la fatalità; cioè a dire l’adesione naturale all’essere e alla vita. E qui non intendo riferirmi ai possibili rapporti con la terra; cose queste che Picasso esibì sino al folclore toreadorico. Intendo riferirmi al flusso interno, al flusso primo ed ultimo di ciò che è l’esistenza.

 

Corriere della Sera, 29 settembre 1985
Qui si tocca, forse, la ragione della forza platetariamente allarmante, perché planetariamente vitale, del mondo di Picasso; qui si prende fra le mani la prova della sua intatta attualità; un’attualità circa una conduzione dell’esistenza che, in questi anni, sembra voler consumare e distruggere, nell’uomo, la sua stessa esistenza. La necessità era, infatti, d’opporre al già iniziato dominio delle violenze scientifiche e tecnologiche, al processo non riferito più all’uomo, o indifferente all’uomo, quasi fosse il nuovo, astratto Moloch cui tutti prostrarsi, la verità nuda e cruda della creazione; e, in essa, dell’uomo.

Nuda e cruda, significava (e significa), per prima cosa, che tale verità doveva glorificare il corpo dell’uomo nella sua animalità senza paura di ricorrere, come Picasso ha più volte fatto, alla violenza e alla crudeltà che opponeva alla torva sapienza irrelata del Nuovo Potere l’enorme insipienza relata della nostra carne; forse, anzi, della bestia che, per fortuna, gemeva e geme ancora in noi. Prima che una mano di metallo, o di qualche fibra artificiale, le piombi sopra per strozzarla e finirla.

Vien da dire: ma sono due Picasso diversi o sono i Testori ad essere due?

UNA COSA DIVERTENTE DEI LEGO DI MATTEO NEGRI

Venerdì prossimo alla Galleria ABC di Genova inaugura la mostra di Matteo Negri intitolata Una cosa divertente che non farò mai più. Nel catalogo c’è una breve intervista che ho fatto a Negri. Eccone alcuni passaggi.

 

Matteo Negri, una cosa divertente che non farò mai più, genova, 2013

LF: Quindi hai deciso di smettere con i Lego?

MN: Non lo so. Forse cambierò delle cose.

LF: È comunque un momento di svolta

MN: Mi piacerebbe che la mostra di Genova fosse un punto di chiusura con un certo tipo di lavoro. I Lego hanno trovato evoluzioni più felici di altre. Adesso sono di fronte a un punto di domanda. Ma il punto di domanda non è sul fattore “Lego”, il problema è a livello della scultura.

LF: In che senso?

MN: Queste sculture si sono imposte nello spazio. Anche nello spazio aperto, pubblico. Il soffitto del mio studio è alto 3 metri e 20. È raggiungendo quell’altezza che ho realizzato le opere di Lego più interessanti. Ora vorrei sviluppare il mio lavoro in relazione con la dimensione massima.

LF: Monumentale.

MN: Sì, monumenti veri. Nelle dimensioni.

LF: Che cosa ti intriga di questo aspetto?

MN: Per fare i nodi di Lego devo realmente fare un nodo con la gomma piuma. Anche nel caso delle sculture più grandi. Le forme che realizzo sono armonie astratte nello spazio, nel vuoto. Il nodo è diventato la misura di uno spazio vuoto.

Matteo Negri, una cosa divertente che non farò mai più, genova, 2013LF: Conta di più il fattore “nodo” che non il fattore “Lego”?

MN: Sì, sicuramente. Il Lego è per me una sorta di alfabeto che mi ha portato a creare un mio linguaggio normale. È come se fosse la forma del mio disegno.

(…)

LF: Come sei arrivato al Dna?

MN: Ha una forma bellissima. Si muove nello spazio. L’elicoide è una forma straordinaria. Ne sono affascinato: è uno spazio pieno e vuoto. Delimita lo spazio, ma lo svuota al tempo stesso. È formato da due fasce simmetriche che si muovono attorno a un cilindro. Ha delle proporzioni perfette. È una geometria vera. È una sfida per uno scultore.

Nei giorni scorsi si è creato qualche equivoco rispetto ad alcune opere esposte per le vie di Genova. Niente di grave. La vicenda l’ha raccontata Secolo XIX qui e qui

BUON ANNO DA NONAMEHAPPY NEW YEAR

The people on the (People on streets) edge of the night
And loves (People on streets) dares you to change our way of
Caring about ourselves
This is our last dance
This is our last dance
This is ourselves
Under pressure
Under pressure
Pressure
The people on the (People on streets) edge of the night
And loves (People on streets) dares you to change our way of
Caring about ourselves
This is our last dance
This is our last dance
This is ourselves
Under pressure
Under pressure
Pressure