BALLERINE, GRATTACIELI E SALARI DA FAME

Viaggio a Shenzhen: la culla del capitalismo cinese
“Ella que-se-ra, she’s livin’ la vida loca / Y te do-le-ra / Si de verdad te toca”. Le note frenetiche di Ricky Martin accompagnano la danza indiavolata di tre ballerini che sgambettano sul bancone del bar. Sono in tre. Lui, capelli a caschetto, veste una tutina rossa anni 70 che avvolge un fisico atletico. Balla tra una bionda e una bruna in minigonne svolazzanti. Sorridono dall’alto agli avventori a testa in su, seduti tra i tavolini illuminati da luce soffusa. “She’s livin’ la vita loca…”. È la notte di Halloween e il ristorante “Romas” di Shenzhen ha organizzato una festa a tema, con tanto di ballerini, streghe e porta candele a forma di zucca. Siamo nel quartiere di Shaokoi, il più occidentale della culla del boom economico cinese. Il proprietario del “Romas” è Ferdi Gerhard, uno zurighese sulla cinquantina che ha fatto affari ad Hong Kong e ora ha aperto questo locale “italiano” che riscuote un certo successo tra gli occidentali accorsi in questa città come in una sorta di corsa all’oro.
Nel 1980 Shenzhen è un piccolo villaggio di pescatori separato da una lingua di mare dai grattacieli e dallo sfarzo di Hong Kong. In quell’anno Deng Xiao Ping decide di istituire, agli albori del passaggio dall’economia stanilista al capitalismo selvaggio, una Zona Economica Speciale (ZES) come laboratorio per un esperimento da estendere a tutto il Paese. La scelta cade proprio su Shenzhen grazie alla sua vicinanza con il cuore del capitalismo orientale: Hong Kong. Da quel momento il villaggio viene ricoperto di capitali statali e in un men che non si dica diventa una delle città più ricche del Paese. Un esempio paradigmatico della velocità del boom è quello del quotidiano della Zona Economica Speciale. Nel 1982, l’anno della sua fondazione, il pugno di giornalisti della redazione lavora in piccolo prefabbricato di pochi metri quadrati. Oggi, 25 anni dopo, quello che è diventato lo “Shenzhen press group” pubblica undici quotidiani e cinque settimanali per un totale di due milioni di copie e dà lavoro a 6200 persone di cui 2000 sono giornalisti. E la redazione? Beh, nel prefabbricato non ci stanno più tutti e la sede principale del gruppo è un modernissimo grattacielo di una cinquantina di piani. Ecco, Shenzhen è questa: una città dove la ricchezza si misura con il numero di piani del tuo grattacielo. Il più famoso di tutti, anche se non è né il più bello né il più alto, viene chiamato “World Trade Tower” tirato su nel 1985 in appena 14 mesi, una media di tre giorni per ogni piano. Ecco, Shenzhen è questa: una città dove la velocità si misura in “giorni per piano di grattacielo”.
Ad avermi portato al “Romas” di Shaokoi è Daniel Frattini. Daniel ha 32 anni, è nato in Corea del Sud, è stato adottato da genitori della svizzera interna (il padre di Zurigo e la madre di Ginevra) e ha sposato una ragazza di Shenzhen. Ora vivono e lavorano qui con una bambina di un anno e mezzo. Si chiama Margot e non avrà altri fratelli a causa della legge del figlio unico. “Questa legge – dice Daniel – sta procurando uno squilibrio tra maschi e femmine in favore dei maschi. L’unico vantaggio è che Margot non avrà difficoltà a trovare marito…”. Sorride. Daniel ha cambiato alcuni lavori da quando è a Shenzhen, ma ora lavora con le agenzie di viaggio svizzere e organizza tour in Cina. “La maggior parte degli imprenditori europei pensa che i migliori affari si facciano a Shanghai, ma pochi sanno che qui a Shenzhen le condizioni fiscali sono molto migliori”. Ci indica un edificio non lontano dal “Romas” dove hanno sede tutte le maggiori aziende petrolifere occidentali che da qui gestiscono gli affari del greggio estratto dalle piattaforme al largo di Hong Kong. “Certo non basta venir qui per fare affari – dice Daniel – occorre essere anche capaci, che storie”. Mi accompagna nella piazzetta centrale di Shaokoi dove da qualche anno un francese ha aperto la “Brasserie Napoleon”. “Si trova in una zona centralissima eppure il locale è sempre vuoto. Si mangia male e il conto è salato. Siamo in Cina, d’accordo, ma queste cose contano anche qui”.
A parte la “Brasserie Napoleon”, il successo dei progetti occidentali in Cina non è mai stato automatico, anzi. Fino a qualche anno fa un imprenditore occidentale che volesse aprire un’attività a Shanghai o Shenzhen doveva trovarsi obbligatoriamente un partner sul posto con cui stringere una joint venture. La parte cinese aveva sempre il 50 più uno delle azioni dell’azienda anche se il know how lo metteva quasi sempre l’occidentale. Ma il gioco non durava molto: una volta acquisito il know how il partner cinese lasciava a piedi la contro parte occidentale che tornava a casa con le pive nel sacco. C’è chi dice, tra gli analisti, che sia accaduto nel 95% dei casi.
Qui chi è sicuro di fare affari d’oro sono le grandi aziende private ma a controllo statale. La sigla ZTE in Svizzera non ci dice niente: si tratta di una delle più arrembanti industrie di tecnologia per le telecomunicazioni dal mondo. Nel 2004 ha avuto un giro di affari di 4,1 miliardi di dollari e un utile di 2,7 miliardi con tassi di crescita da capogiro. Produce telefonini dell’ultima generazione con design da far invidia alla Nokia. I suoi server sono stati utilizzati durante le olimpiadi di Atene e, neanche a dirlo, ha vinto l’appalto anche per quelle che si terranno a Pechino nel 2008. Dà lavoro 21mila persone. Ho fatto un giro nei suoi stabilimenti: perfetti. Pulizia, silenzio, ordine. Otto ore di lavoro cinque giorni a settimana. Nulla da ridire. Peccato che sia l’unica fabbrica che i miei ospiti cinesi, “vagamente” vicini al Partito, mi hanno permesso di visitare. La marcia in più dell’economia cinese, non è un mistero, è la manodopera a basto costo che vive e lavora in condizioni subumane. Stando a una ricerca dall’associazione britannica Impactt, che si occupa di migliorare l’impatto sociale delle grandi catene di distribuzione, la giornata di lavoro media di un operaio cinese dura 14 ore e il suo salario è di 75 euro al mese. Nonostante alcune aziende importatrici, soprattutto americane o britanniche, tentino di combattere gli abusi attraverso un sistema di “certificazione etica” grazie a un libretto di lavoro per gli operai sul quale vengono registrati orari di lavoro e salario, le fabbriche cinesi trovano il modo per falsificare sistematicamente i dati. Nell’arco di tre anni i consulenti di Impactt hanno visitato 100 fabbriche cinesi che forniscono 11 grandi catene di distribuzione che operano in Gran Bretagna, e in nessuna di queste esistevano condizioni lavorative soddisfacenti. Per non parlare della sicurezza sul lavoro: in Cina le morti sul lavoro sono 12 volte più frequenti che in Inghilterra. Nella sola Shenzhen 13 operai ogni giorno perdono sul lavoro un dito o un braccio. Ecco, Shenzhen è questa: una città dove ogni anno ci sono 4700 nuovi mutilati.
Ma la tensione sociale in città sta per far saltare il coperchio e le proteste sono quasi all’ordine del giorno. Lo scorso 6 ottobre 2005 tremila operai di una fabbrica di componenti elettronici, una joint venture tra Hong Kong e Cina, hanno bloccato l’entrata della fabbrica e il traffico nelle strade circostanti per protestare contro il salario di 28 dollari al mese. Il 2 novembre altri 3 mila dipendenti di una fabbrica italiana di divani hanno bloccato l’autostrada per protestare contro le violenze tra tre operai e il datore di lavoro a seguito di una discussione sul salario. Il 6 novembre circa mille veterani dell’Esercito di liberazione popolare hanno marciato per protestare dopo che due ex commilitoni sono stati arrestati durante proteste sempre per i salari. Ma non è solo questione di soldi. Il 19 gennaio 2006, infatti, migliaia di persone hanno manifestato contro la chiusura forzata di alcune decine di bar, discoteche, night club e sale per il karaoke. Le autorità locali, nel contesto di una campagna contro il vizio, hanno accusato la malavita di usare questi locali come copertura per la prostituzione. “Ella que-se-ra, she’s livin’ la vida loca”.

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