MATISSE IMMORTALATO IN BIANCO E NEROMATISSE IMMORTALIZED IN BLACK AND WHITE

A gennaio sono stato a New York e ho visto al Metropolitan Museum “Matisse – In search of true paintings”. Una mostra straordinaria, davvero. Jerry Saltz l’ha definita una mostra «inebriante, potenzialmente pericolosa». Le curatrici, Dorthe Aagesen e Rebecca Rabinow, hanno scelto di presentare Matisse come un pittore di ricerca, mai soddisfatto dei propri risultati.

Negli anni Trenta il pittore sceglie di far fotografare le fasi del proprio lavoro. Lydia Delectorskaya raccontava che il fotografo veniva chiamato «quando, alla fine di una sessione di lavoro, a Matisse sembrava di essere arrivato alla fine del lavoro o decideva di essere arrivato a uno stadio significativo».

Nel dicembre del 1945 decide di mostrare al pubblico il “dietro le quinte” del suo lavoro e, alla Galleria Maeght di Parigi, espone alcune sue opere accostate alle fotografie delle fasi del lavoro. Alcune di queste “istallazioni” sono riproposte nella mostra di New York.

In un’intervista proprio del 1945 Matisse spiegava: «Ho la mia idea in testa, e voglio realizzarla. Posso, molto spesso, riconcepirla. Ma so dove voglio andare a parare. Le foto scattate durante l’esecuzione dell’opera mi permettono di sapere se l’ultima esecuzione si avvicina di più a ciò che sto cercando più rispetto alle precedenti. Mi fa capire se sto avanzando o retrocedendo».

Prendiamo il caso de Il Sogno del 1940. Di questo quadro vengono scattate 14 immagini. La prima è del 7 gennaio, l’ultima del 19 settembre. Nove mesi di gestazione. È impressionate vedere quanto lavoro, quanto pensiero ci sia dietro un’immagine che, a prima vista, sembra la quintessenza della spontaneità. La mostra di New York dimostra che questo lavorìo, tecnico e di pensiero, era costitutivo del modus operandi di Matisse.

Henri Matisse, il Sogno, 1940
Henri Matisse, il Sogno, 1940

In January I was in New York and I saw at the Metropolitan Museum “Matisse – In search of true paintings”. A extraordinary exhibition, really. Jerry Saltz called it a show «intoxicating, potentially dangerous». The curators, Dorthe Aagesen and Rebecca Rabinow, have chosen to present Matisse as a painter of research, never satisfied with their results.

In the Thirties the painter chooses to photograph the stages of their work. Lydia Delectorskaya said that the photographer was called «when, at the end of a session, it seemed to Matisse he had arrived at a significant stage.»

In December 1945 he decided to show the public the “behind the scenes” of his work and, at the Maeght Gallery in Paris, he exhibited some of his works juxtaposed with photographs of the stages of labor. Some of these “installations” are repeated in the New York exhibition.

In an interview in 1945 just Matisse explained: «I have my conception in my head, and I want to realize it. I can, very often, reconceive it. But I know where I want to end up. The photos taken in the course of the execution of the work permit me to know if the last conception conforms more to what I am after than the preceding ones, whether I have advanced or regressed.»

Take the case of The Dream, 1940. Fourthteen photos are of this painting. The first is from January 7, the last of September 19. Nine months of gestation. It is impressive to see how much work, how much thought is behind an image that, at first glance, seems the quintessence of spontaneity. The exhibition in New York shows that this intense activity, technical and of thought it was constitutive of Matisse’s modus operandi.

Henri Matisse, il Sogno, 1940
Henri Matisse, il Sogno, 1940

I SEGNI VIOLENTI DELLA VIA CRUCIS DI MATISSE

Henri Matisse, Chapelle du Rosaire de Vence, 1951

Padre Marie-Alain Couturier, domenicano amico e confidente di Henri Matisse, commentava così nel 1951, la Via Crucis realizzata per la parete di fondo della Cappella del Rosario di Vence:

“Vorrei provare a dire, nel modo più semplice, che cosa penso di quest’opera: la ritengo la più importante e la più bella nella cappella. (…)
Vedo qui una specie di grande pagina, coperta di tratti che assomigliano a una calligrafia alterata, a malapena leggibile, con lettere scritte di fretta, sotto l’effetto di un’emozione troppo grande; vi si scorgono già, senza però poterli ancora decifrare, i segnali più chiari e più sconvolgenti di ciò che stanno per dire. Quale altra calligrafia più di questa è adatta per parlarmi della Passione? Mi bastano questi segni violenti: mi dicono l’essenziale. Posso aver bisogno d’altro?
Quando li leggo, colgo che non c’è stato né tempo né volontà di definire i dettagli o scegliere le parole: la terribile notizia è lì intatta, senza rimaneggiamenti né abbellimenti. Che cosa posso spettarmi d’altro da qualcuno che ha vissuto in sé il dramma e ne ha provato nel cuore la durezza e lo sconvolgimento?
Noto che nello stile qui non ha più nulla in comune con ciò che conoscevamo come tale di Matisse. In nessun’altra opera ritrovo una violenza simile, una analoga, totale assenza del minimo scrupolo di bellezza: qui nulla è predisposto per il piacere della visione. Brutali, ecco, sono persino le cifre che numerano le stazioni. (…)
Osservo anche la consanguineità di questo stile brusco, affrettato, indifferente a tutto ciò che non vuole dire, con lo stile di Tavant e dei primi affreschi romanici. Matisse mi raccontava un giorno come, ancora giovane e dispiaciuto di non riuscire a dipingere come gli altri, avesse scoperto con eccitazione, davanti ai Goya del Museo di Lille, che “la pittura poteva essere un linguaggio”, addirittura che poteva “non essere altro che questo”. Non lasciamoci ingannare: nelle epoche davvero grandi, l’arte non è che linguaggio. Non un ornamento. Anche se si esprime in termini molto difficili. Perché non è affatto certo che il dovere degli artisti sia quello di fare in modo che tale linguaggio risulti accessibile a tutti; al contrario è loro dovere sacrificare tutto alla nettezza, alla verità dei segni, per quello che hanno da dirci”.

(da L’Art Sacré, luglio-agosto 1951, in Un’avventura per l’arte sacra, ed. Jaca Book)

Henri Matisse, Chapelle du Rosaire de Vence, 1951

ARTISTI CINESI TOP SELLER, ECCO CHI SONO

Alla conferenza stampa di presentazione della mostra di Gerhard Richter alla Tate Modern, il grande pittore tedesco rispondendo a una domanda ha detto che il mercato dell’arte è “assurdo quanto la crisi bancaria” ed è “impossibile da capire ed è sciocco”. Qualcuno gli fa notare che è facile dire così da parte di uno che nel 2010 è stato il primo degli artisti viventi a comparire nella classifica dei 500 artisti che hanno venduto di più nelle aste di quell’anno (è al 16° posto con 192 opere vendute per 62milioni di dollari – nb: non sono soldi che sono andati in tasca a lui, ma ai venditori e alle case d’asta).

Detto questo è abbastanza impressionante dare un’occhiata ai nomi in cima alla classifica stilata da artprice.net. Non ci sarebbe nulla di stupefacente, ma io mi stupisco lo stesso: tra i primi dieci artisti della classifica 4 sono cinesi (gli altri sono in ordine: Picasso, Andy Warhol, Giacometti, Matisse, Modigliani, Lichtenstein). Io, nella mia immensa ignoranza, non ne ho mai sentito parlare. Non so voi. Io comunque me li segno. Un giorno, magari, ci metterò la testa per conoscerli e capirli.

Qi Baishi (齊白石, 齐白石, 1864-1957)

Secondo classificato dopo Pablo Picasso e prima di Andy Warhol, nel 2010 sono state battute 914 sue opere per un valore di 339 milioni di dollari.

Qi Baishi (齊白石, 齐白石, 1864-1957) Qi Baishi (齊白石, 齐白石, 1864-1957) Qi Baishi (齊白石, 齐白石, 1864-1957)

Zhang Daqian (張大千, 张大千, 1899-1983)

Quarto classificato tra Andy Warhol e Alberto Giacometti. 795 opere vendute per un valore di 304 milioni di dollari.

Zhang Daqian (張大千, 张大千, 1899-1983)

Zhang Daqian (張大千, 张大千, 1899-1983)

Zhang Daqian (張大千, 张大千, 1899-1983)

Xu Beihong (徐悲鴻, 徐悲鸿, 1895 – 1953)

Sesto classificato dietro Alberto Giacometti e prima di Henri Matisse. 248 opere vendute per un valore di 176 milioni di dollari.

Xu Beihong (徐悲鴻, 徐悲鸿, 1895 - 1953) Xu Beihong (徐悲鴻, 徐悲鸿, 1895 - 1953)

Fu Baoshi (傅抱石, 1904-1965)

Nono classificato tra Amedeo Modigliani e  Roy Lichtenstein. 203 opere vendute per un valore di 125 milioni di dollari.

Fu Baoshi (傅抱石, 1904-1965) Fu Baoshi (傅抱石, 1904-1965)

Fu Baoshi (傅抱石, 1904-1965)

GAUDÌ, GARAGE E GITE PER SEMINARISTI

Pope Benedict XVI, at center, leads a mass at  Sagrada Familia church in Barcelona, Spain, Sunday, Nov. 7, 2010. The Pope consecrated La Sagrada Familia, the Barcelona landmark designed by Antoni Gaudi, whose construction began in 1882 and continues today.
(AP Photo/Alessandra Tarantino)

Oggi ho letto sul blog di Andrea Tornielli, bravissimo vaticanista del Giornale, un post sulla Sagrada Familia di Antoni Gaudì a Barcellona. Dice cose molto interessanti, ma non essendo d’accordo su alcune questioni – vincendo la mia naturale riluttanza – ho deciso di intervenire nell’affollato dibattito che il post ha suscitato. Ho scritto così:

Il caso della Sagrada Familia è certamente un caso a sé. Gaudì era uno dei più grandi architetti del mondo e contemporaneamente un santo. La grandezza della sua opera non dipende in modo meccanico dalla sua santità, ma non sarebbe spiegabile senza di essa. Ma che santità e genio artistico vadano di pari passo è un fenomeno auspicabile ma che capita come capitano i miracoli: inaspettato e gratuito.
La santità dell’architetto – o più semplicemente il suo essere un buon cristiano – purtroppo non può garantire la bontà del risultato, tanto è vero che molti “garage” di cui parla Tornielli probabilmente sono stati realizzati da architetti cristiani.
È giusto dunque segnalare la Sagrada Familia come esempio, perché innanzitutto dimostra che una conciliazione tra arte moderna e arte sacra è possibile. Tuttavia non è sufficiente un esempio a segnare una strada percorribile. Occorre capire se ci sono altri esempi riusciti. Esistono casi, meno eclatanti di quelli di Barcellona, nei quali tentativi di riconciliazione sono andati a buon fine oppure nel XX e XXI secolo tutte le nuove chiese sono state costruite come dei garage? Pensare che non esistano eccezioni al disastro significa aver chiuso il discorso a priori. In questo modo si impedisce che discorsi, pur giusti e doverosi, su verità e bellezza possano toccare terra. Io sono convinto che esempi ce ne siano e che occorra farli conoscere e valorizzarli. Gio’ Ponti, ad esempio, ha progettato delle chiese – magari non mozzafiato – ma comunque molto belle e credibili sia dal punto di vista artistico che religioso. Di nomi ce ne sarebbero altri ed eccellenti: Le Corbusier, Matisse… Perché non organizzare delle gite per seminaristi (futuri committenti di chiese) a queste – e altre – opere?