I SEGNI VIOLENTI DELLA VIA CRUCIS DI MATISSE

Henri Matisse, Chapelle du Rosaire de Vence, 1951

Padre Marie-Alain Couturier, domenicano amico e confidente di Henri Matisse, commentava così nel 1951, la Via Crucis realizzata per la parete di fondo della Cappella del Rosario di Vence:

“Vorrei provare a dire, nel modo più semplice, che cosa penso di quest’opera: la ritengo la più importante e la più bella nella cappella. (…)
Vedo qui una specie di grande pagina, coperta di tratti che assomigliano a una calligrafia alterata, a malapena leggibile, con lettere scritte di fretta, sotto l’effetto di un’emozione troppo grande; vi si scorgono già, senza però poterli ancora decifrare, i segnali più chiari e più sconvolgenti di ciò che stanno per dire. Quale altra calligrafia più di questa è adatta per parlarmi della Passione? Mi bastano questi segni violenti: mi dicono l’essenziale. Posso aver bisogno d’altro?
Quando li leggo, colgo che non c’è stato né tempo né volontà di definire i dettagli o scegliere le parole: la terribile notizia è lì intatta, senza rimaneggiamenti né abbellimenti. Che cosa posso spettarmi d’altro da qualcuno che ha vissuto in sé il dramma e ne ha provato nel cuore la durezza e lo sconvolgimento?
Noto che nello stile qui non ha più nulla in comune con ciò che conoscevamo come tale di Matisse. In nessun’altra opera ritrovo una violenza simile, una analoga, totale assenza del minimo scrupolo di bellezza: qui nulla è predisposto per il piacere della visione. Brutali, ecco, sono persino le cifre che numerano le stazioni. (…)
Osservo anche la consanguineità di questo stile brusco, affrettato, indifferente a tutto ciò che non vuole dire, con lo stile di Tavant e dei primi affreschi romanici. Matisse mi raccontava un giorno come, ancora giovane e dispiaciuto di non riuscire a dipingere come gli altri, avesse scoperto con eccitazione, davanti ai Goya del Museo di Lille, che “la pittura poteva essere un linguaggio”, addirittura che poteva “non essere altro che questo”. Non lasciamoci ingannare: nelle epoche davvero grandi, l’arte non è che linguaggio. Non un ornamento. Anche se si esprime in termini molto difficili. Perché non è affatto certo che il dovere degli artisti sia quello di fare in modo che tale linguaggio risulti accessibile a tutti; al contrario è loro dovere sacrificare tutto alla nettezza, alla verità dei segni, per quello che hanno da dirci”.

(da L’Art Sacré, luglio-agosto 1951, in Un’avventura per l’arte sacra, ed. Jaca Book)

Henri Matisse, Chapelle du Rosaire de Vence, 1951

L’OMBRA DEL RIGORE. SGARBI FA CONFUSIONE SULL’ARTE SACRA

Oleg Supereco cupola noto
Oleg Supereco, affreschi della cupola della Cattedrale di Noto, particolare, 2010

Ho letto il libro di Vittorio Sgarbi L’ombra del divino nell’arte contemporanea (2011, Cantagalli). È un libro per certi versi interessante. Non privo di spunti. Ha alcune pagine molto belle. Tuttavia lo sconsiglio vivamente a chi volesse chiarirsi le idee sull’arte sacra contemporanea. Il saggio di Sgarbi nasce presentazione dell’esperienza di ricostruzione della cattedrale di Noto. Il critico cerca di contestualizzare il problema (che è un grosso problema aperto) del rapporto tra Chiesa e arte contemporanea o, se volete, tra arte contemporanea e sacro (due problemi diversi, ma nel libro non si va troppo per il sottile).

Sgarbi segnala come esito più alto di arte sacra contemporanea la Rothko Chapel a Huston. Scrive Sgarbi: “Il trittico, collocato nello spazione geometrico di Renzo Piano, è il coronamento di un’idea consentanea di pura essenza tra pittore e architetto. Alla radice va detto che l’esperienza mistica implicita risiede nell’intuizione geometrica dello spazio, il cui risultato probabilmente persuaderebbe anche papa Ratzinger, in quanto quel blocco di cemento non umilia la dimensione sacra, ma nella sua spaziatura essenziale esalta l’idea di Dio”.

E poco dopo aggiunge un’affermazione molto forte: “Del resto, l’arte sacra in senso antropomorfico è finita. Non si può pensare che abbia una resistenza nella rappresentazione di immagini riconoscibili”.

Due osservazioni:

1) Sul fatto che la Rothko Chapel sia un capolavoro c’è poco da discutere. Ma l’affermazione di Sgarbi sarebbe stata più credibile se non l’avesse attribuita a Renzo Piano. Piano nel 1971 aveva 34 anni e non aveva firmato ancora nessun progetto. 

2) Se è vero che “l’arte sacra in senso antropomorfico è finita”, perché decidere di ricostruire la cattedrale di Noto tale e quale e decorarla con arte figurativa anacronistica (anacronistica è l’aggettivo usato da Sgarbi)?

Sgarbi introduce li concetto di “ombra del divino” per definire l’arte sacra contemporanea. “Nel contemporaneo – scrive Sgarbi – per chi quelle forme voglia riprodurre (le forte dell’arte rinascimentale, ndr), o ripercorrere, o mimare, l’esito è produrre un’ombra. L’ombra non vuol dire qualcosa che non ha la sua piena forma, bensì qualcosa in cui si percepisce ciò che è stato, sentendo che il prodotto creativo oggi realizzato non è una copia, ma è l’ombra di quella forma“. Un concetto interessante ma un po’ confuso, a dire il vero. Che fa a pugni con la sua esaltazione dell’arte astratta di Rothko.

Per chi volesse avvicinarsi a questo tema (e vuole provare la vertigine che esso produce in chi lo affronta in modo serio) consiglio il ben più rigoroso testo di Marie-Alain Couturier Un’avventura per l’arte sacra curato da Maria Antonietta Crippa per Jaca Book. Qui c’è un brano pubblicato recentemente da Avvenire, che potrebbe essere preso come manifesto.