PERCHE’ FINI TENTA IL SORPASSO A SINISTRA?

Dal Giornale del Popolo del 30 marzo 2009

Con la nascita del Popolo della Libertà, proclamata questo fine settimana da Silvio Berlusconi, si chiude il lungo periodo di transizione della politica italiana iniziato quindici anni fa con la scomparsa della Democrazia Cristiana. È un processo che ha avuto un’accelerazione negli ultimi due anni prima con la nascita del Partito democratico e poi con l’annuncio, sull’ormai celebre predellino di piazza San Babila a Milano, del partito fondato ieri dal Cavaliere. Da oggi l’Italia ha due grandi partiti che, a loro dire, hanno entrambi “vocazione maggioritaria”. Si tratta del risultato di alchimie assai diverse. Il PD nasce dall’unione del più grande partito rimasto sulla piazza, i DS (già PCI), e dai reduci della tradizione della sinistra democristiana, la Margherita; mentre il PDL è il risultato della fusione del più grande “non partito” della storia politica italiana, Forza Italia, e dei rappresentati dello storico partito della destra, Alleanza Nazionale. Il partito di Dario Franceschini ha dunque dalla sua il profondo radicamento sul territorio e una squadra più folta di professionisti della politica che sul lungo periodo può dare più garanzie; dall’altra, invece, c’è un approccio più spontaneamente pragmatico e maggior capacità di mettersi in sintonia con gli umori del Paese. Entrambe le formazioni avranno problemi di organizzazione interna tra le diverse anime: chi comanderà a livello locale? Come ci si “spartiranno” le poltrone? Anche la leadership sarà un problema, ma in senso diametralmente opposto: il PD ha bruciato in pochi mesi Veltroni, e Franceschini non appare come l’uomo che ne risolleverà le sorti; mentre per il PDL resta l’interrogativo sul dopo-Berlusconi. Ma al di là dei parallelismi il termometro elettorale non lascia dubbi: il PDL nasce con il vento in poppa e con un potenziale del 44% alle urne, mentre il PD è in un calo netto di consensi e prova in tutti i modi ad uscire dalle sabbie mobili.
Inutile dire che il catalizzatore di questo processo di cambiamento del panorama politico italiano è stato Berlusconi stesso. È un Berlusconi, lo si è visto nel discorso di ieri, che non ha smesso di promettere un’Italia diversa in continuità con quanto predicato nel ’94, ma che in tempo di crisi sa che di miracoli italiani non se ne possono promettere a cuor leggero. Il “non politico”, in fondo, ha imparato qualcosa da quindici anni di attività politica tanto che, anche attraverso la sua attività di Governo, ha mostrato come dietro gli slogan ammiccanti, inizi a delinearsi una cultura politica.
Il merito, la difesa del ceto produttivo, l’economia sociale (la crisi qui ha unito i liberisti pentiti e la vecchia corrente sociale di destra), l’anti-sessantottismo, la responsabilità individuale, l’anti-statalismo, la sussidiarietà: è una piattaforma di valori sulla quale oggi Berlusconi e Fini possono andare d’accordo. Non è poco. Ma se la nascita del nuovo partito è in puro stile berlusconiano e il suo destino, per ora, è legato da una logica di causa-effetto al suo creatore (anche se ieri il Cavaliere ha detto per la prima volta esplicitamente che questo partito gli sopravvivrà), la vera novità è il “fattore AN”. Più che una novità, a dire il vero, è un’incognita. Gianfranco Fini si candida al ruolo di “anima critica” del partito. Per ora questo ruolo lo ha interpretato, paradossalmente, provando a superare Berlusconi “a sinistra”. Su temi come immigrazione, laicità e bioetica, infatti, Fini è apparso più vicino alla sensibilità dal PD che non a quella dello stesso Berlusconi. È un modo per non farsi schiacciare dal peso della personalità di Berlusconi? È un modo per allargare la base di consenso del partito? Vuole tenere in pugno il pallino delle relazioni con il PD? Difficile dirlo, ma ora che le differenze nel centrodestra italiano non sono più di carattere partitico la battaglia interna sarà tutta sui singoli temi. Per ora questo appare il dato più importante.

NIENTE, O QUASI, PIÙ COME PRIMA

All’indomani delle elezioni federali svizzere scrivevo qui che quello che è successo ieri mattina e questa mattina a Berna era assai difficile che si realizzasse. Con me lo escludevano i più scafati commentatori elvetici, ai quali io ho l’onore di non appartenere.
Spiegare il senso e la portata di ciò che è successo a chi non è svizzero, sarebbe come tentare di spiegare a un cinese l’abissale differenza che passa tra un emiliano e un romagnolo.
Comunque in estrema sintesi è successo che: il parlamento svizzero non ha rieletto l’uomo simbolo (Christoph Blocher) del primo partito svizzero (l’UDC)e al suo posto ha scelto una ministra grigionese (Eveline Widmer-Schlumpf) appartenente a quello stesso partito. Alla vigilia dell’elezione del governo federale, l’UDC aveva dichiarato che, se anche uno solo dei suoi due ministri non sarebbe stato rieletto, sarebbe passata all’opposizione. Tecnicamente, però, per passare all’opposizione l’UDC ha dovuto cacciare dal partito i due ministri UDC (Schmid e Widmer-Schlumpf). Gli equilibri numerici all’interno del Governo non cambiano, cambia il fatto che due dei suoi membri non sono più appoggiati dal loro partito.
Ora la concordanza, il principio fondante del sistema politico svizzero, secondo cui tutti i partiti svizzeri sono rappresentati nel governo federale, è messa a dura prova (per non dire che è praticamente saltata per aria). L’UDC dovrà inventarsi il modo di fare opposizione in un Paese dove tradizionalemente il ruolo dell’oppositore era affidato al popolo che, grazie al sistema dei referendum, poteva annullare le decisioni prese dal Governo. Il rischio ora è quello di un blocco istituzionale, con l’UDC impegnata costantemente a promuovere referendum.
Questo è quello che è successo. Perché è successo? Questa, forse, è la materia per il prossimo post.