UNA SVIZZERA A TEHERAN


Dal Giornale del Popolo del 5 giugno 2008

C’è un solo politico italiano che ha stretto volentieri la mano a Ahmadinejad durante la sua visita a Roma: si chiama Roberto Fiore ed è il numero uno del partito neofascista “Forza Nuova” (e non vanta nessuna parentela con chi scrive). “Grazie per tutto quello che fate, noi siamo con voi” ha detto Fiore al presidente pasdaran che a ogni piè sospinto minaccia la distruzione dello Stato d’Israele (lo ha fatto puntualmente anche martedì). Tranne questa significativa eccezione, nessun’altra personalità politica o istituzionale italiana ha voluto incontrare il presidente iraniano che è stato escluso, in compagnia del dittatore dello Zimbabwe Robert Mugame, anche dalla cena con i capi di Stato offerta l’altra sera dalla diplomazia italiana. Un fronte compatto è riuscito a impedire ad Ahmadinejad di approfittare del vertice FAO per accreditarsi come interlocutore politico presso la comunità internazionale. Questo isolamento non ha impedito al presidente di incontrare un folto gruppo di investitori italiani che fanno affari con Teheran (sull’opportunità di questi scambi si potrebbe discutere, approfondendo caso per caso) senza che la visita si trasformasse in un trionfo dal punto di vista diplomatico. Al contrario, Ahmadinejad ha dimostrato per l’ennesima volta di essere un capo di Stato animato da un fanatismo anti-occidentale e antisemita che lo rende, agli occhi di chi non sia accecato dallo stesso morbo, una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale.
Il clima di freddezza generale che il presidente iraniano ha respirato martedì a Roma è quello che oggi respirerebbe in qualsiasi altra capitale europea; eppure alla mente non può che tornare la spensierata visita che il nostro ministro degli Esteri, Micheline Calmy-Rey, ha compiuto qualche mese fa facendo storcere il naso a molti osservatori di casa nostra e non solo. La Consigliera federale giustificò quella visita dicendo che in ballo c’erano importanti forniture di gas che avrebbero permesso al nostro Paese di non soffrire la dipendenza dalla Russia. Disse anche, in risposta alle critiche, che nell’incontro con Ahmadinejad non trascurò di trattare i temi dei diritti umani. Poi si scoprì, come riportato da un’inchiesta di “Le Temps” che neanche una goccia del gas iraniano sarebbe arrivata in Svizzera e che evidentemente, il più importante contratto energetico firmato da Teheran negli ultimi dieci anni, poco aveva a che fare con l’affrancamento del nostro Paese dalla dipendenza di forniture dalla Russia. Cosa rimane dunque di quella visita a Teheran? Qualcuno ha timidamente ipotizzato, lo ha fatto ad esempio “Le Temps”, che l’accordo economico fosse soltanto la copertura per creare l’occasione per un approfondimento della “pista elvetica” per la risoluzione a livello diplomatico dell’intricato dossier nucleare. Sappiamo di come il nostro Dipartimento degli Affari Esteri, nella persona del Segretario di Stato Michael Ambühl, si sia prodigato nell’ultimo anno per trovare una soluzione pacifica allo scottante dossier. Eppure le visite di Ambühl a Teheran erano sempre state coperte dal massimo riserbo. La “photo opportunity” tra Ahmadinejad e una velata Calmy-Rey ha fatto il giro del mondo senza che nessun passo avanti nell’ambito di quel dossier sia stato comunicato alla comunità internazionale. Gli interrogativi sulla reale opportunità di quella visita anziché diminuire aumentano. Non vorremmo che questa ambiguità nei confronti di Teheran anziché aiutare Ahmadinejad a tornare su più miti consigli, non abbia come solo esito di trascinare la Svizzera in un inaccettabile isolamento internazionale.

NIENTE, O QUASI, PIÙ COME PRIMA

All’indomani delle elezioni federali svizzere scrivevo qui che quello che è successo ieri mattina e questa mattina a Berna era assai difficile che si realizzasse. Con me lo escludevano i più scafati commentatori elvetici, ai quali io ho l’onore di non appartenere.
Spiegare il senso e la portata di ciò che è successo a chi non è svizzero, sarebbe come tentare di spiegare a un cinese l’abissale differenza che passa tra un emiliano e un romagnolo.
Comunque in estrema sintesi è successo che: il parlamento svizzero non ha rieletto l’uomo simbolo (Christoph Blocher) del primo partito svizzero (l’UDC)e al suo posto ha scelto una ministra grigionese (Eveline Widmer-Schlumpf) appartenente a quello stesso partito. Alla vigilia dell’elezione del governo federale, l’UDC aveva dichiarato che, se anche uno solo dei suoi due ministri non sarebbe stato rieletto, sarebbe passata all’opposizione. Tecnicamente, però, per passare all’opposizione l’UDC ha dovuto cacciare dal partito i due ministri UDC (Schmid e Widmer-Schlumpf). Gli equilibri numerici all’interno del Governo non cambiano, cambia il fatto che due dei suoi membri non sono più appoggiati dal loro partito.
Ora la concordanza, il principio fondante del sistema politico svizzero, secondo cui tutti i partiti svizzeri sono rappresentati nel governo federale, è messa a dura prova (per non dire che è praticamente saltata per aria). L’UDC dovrà inventarsi il modo di fare opposizione in un Paese dove tradizionalemente il ruolo dell’oppositore era affidato al popolo che, grazie al sistema dei referendum, poteva annullare le decisioni prese dal Governo. Il rischio ora è quello di un blocco istituzionale, con l’UDC impegnata costantemente a promuovere referendum.
Questo è quello che è successo. Perché è successo? Questa, forse, è la materia per il prossimo post.