MADAME FISSCHER, UNA MOSTRA BEN PETTINATA

Urs Fischer, mostra palazzo grassi, venezia 2012NO NAME non poteva esimersi dal rendere omaggio al Flower Prize 2011 Urs Fischer e fare un salto a Palazzo Grassi per vedere la sua Madam Fisscher. La mostra è pulita, educata, a tratti rassicurante. Una macchina rodata e ben oliata in cui la forza delle opere dell’artista viene normalizzata. Il potenziale di provocazione non riesce a deflagrare. Tutto sembra ormai così ordinario. Una bella differenza rispetto al colpo che dà invece l’opera Hole del 2007 e che in mostra di Venezia (per ovvi motivi?) non c’era. La modella nuda, presente per tutto il tempo della mostra, è una soluzione un po’ troppo comoda. Mi sarebbe piaciuto un bel buco nel palazzo ristrutturato da Tadao Ando. Monsieur Pinault se lo poteva permettere e, forse, avremmo visto non solo l’abisso senza fondo del suo salvadanaio, ma  anche quello presente dentro di noi.

Urs Fischer, Hole, 2007 Urs Fischer, Hole, 2007

Eppure Urs Fischer resta un grande artista. E si vede anche questa volta. Lo si vede in un paio di punti in modo inequivocabile. Ma in punti un po’ nascosti, in opere secondarie. La più bella e struggente è questa qui sotto: The Grass Munchers, 2007. Una deposizione. I corpi scompaiono, resta solo l’atto. La presa. Un paio di braccia esanimi sostenute da tre mani di tre persone diverse. Un fragmento di scena che evoca quel momento sacro in cui qualcuno è chiamato a sostenere il corpo di qualcun altro. Un gesto corale, silenzioso. Commosso. Urs Fischer tocca con quest’opera il punto su cui poggia tutta la grande arte. Forse ancor di più che nell’opera esposta alla Biennale a cui, non ce ne siamo ancora pentiti, abbiamo assegnato il prestigiosissimo Flower Prize 2o11.

Urs Fischer, The Grass Munchers, 2007

CHARLES RAY, IL RAGAZZO, LA RANA E MARK TWAIN

Boy with frog, Charles Ray
Charles Ray, Boy With Frog, Venezia

«Quando François Pinault mi chiese di pensare a un’opera per la Punta stavo per avere un’operazione al cuore abbastanza complicata. La rana era il mio cuore che osservavo con meraviglia, un po’ di spavento e un po’ di schifo. Ma questa fu soltanto la prima intuizione. La vera idea mi venne leggendo il capitolo 19 di “Le avventure di Huckleberry Finn” di Mark Twain. In quel passaggio del romanzo i due ragazzi guardano il cielo stellato e discutono se le stelle sono sempre state lì o  se qualcuno le ha create, mentre intorno si sente il rumore del fiume e delle rane. Allora ho immaginato questo ragazzo in un punto così magico che contempla la rana mentre noi contempliamo lui e tutto quello che gli sta attorno».

Charles Ray intervistato da Francesco Bonami su La Stampa del 15 agosto 2010

E’ splendido vivere su una zattera. Lassù in alto, sopra di noi, avevamo il cielo, tempestato di stelle, e avevamo l’abitudine di sdraiarci sulla schiena a guardarle e parlavamo di com’erano fatte, se erano state create oppure erano spuntate così, semplicemente… Jim era convinto che erano state fatte e io invece pensavo che fossero spuntate per caso; calcolavo che ci sarebbe voluto troppo tempo per “farne” tante ma Jim diceva che magari le aveva “deposte” la luna; be’, questo mi pareva abbastanza ragionevole e così non criticavo la sua opinione perché anch’io avevo visto una rana deporre una tale quantità di uova che capivo che naturalmente era possibile. Guardavamo anche le stelle cadenti e le vedevamo scivolare giù per il cielo. Secondo Jim quelle erano stelle guaste che venivano buttate fuori dal nido.
Mark Twain, Le avventure di Huckleberry Finn, capitolo 19