ESSERE CRISTIANI IN IRAQ

INTERVISTA A MONS.JEAN BENJAMIN SLEIMAN
dal Giornale del Popolo del 7 aprile 2007

Mons. Jean Benjamin Sleiman è, dal 2001, l’arcivescovo latino di Baghdad. La sua analisi sulla situazione dell’Iraq a quattro anni dalla fine del regime di Saddam è lucida e non si lascia andare né al facile catastrofismo né a un ingenuo ottimismo. I cristiani iracheni vivono il dramma di una minoranza pacifica stretta nella morsa di un clima di violenza e la loro presenza millenaria potrebbe presto estinguersi. Come possono i cristiani occidentali aiutare i loro fratelli iracheni? La risposta di mons. Sleiman è sorprendente: innanzitutto testimonino, là dove sono, la ricchezza dell’esperienza cristiana.
Mons. Sleiman, dopo quattro anni dalla deposizione di Saddam Hussein, come giudica la situazione del Paese?
La deposizione di Saddam è il primo frutto della guerra riuscitissima degli USA. Il dopoguerra che coincide con il dopo-Saddam è una catastrofe a tutti i livelli. La tirannia dispotica del vecchio regime ha fatto posto a delle tirannie fondamentaliste e mafiose. La violenza ha fatto il suo nido ovunque e lo stato di diritto non riesce veramente a ripartire.
Dopo mesi di scontri interetnici qualcuno ha incominciato a parlare seriamente della possibilità di dividere il Paese in tre Stati. Lo ritiene auspicabile?
La criminalità interetnica e interconfessionale è una piaga dell’attuale Iraq. Ma niente giustifica la spartizione del Paese. Ma non si tiene nessun conto di molte minoranze presenti nel Paese e che non hanno nessun interesse a questa spartizione. C’è anche un’altra considerazione di cui bisogna tenere conto: detta spartizione significa appropriazione da parte dei gruppi dominanti delle risorse del Paese. Il che si tradurrà nel privare gli altri di queste risorse. Se il centro non possiede risorse petrolifere, le altre regioni non condivideranno questa risorsa con una parte importante della popolazione. La divisione si avvererà quindi come un progetto di nuove guerre.
Quali sono le possibilità di una riconciliazione nazionale?
Ci vuole innanzitutto la volontà politica, irachena e internazionale. È indispensabile anche un consenso internazionale, almeno delle grandi potenze, sull’Iraq. Se esiste questa volontà, si prenderanno delle misure serie per ristabilire la pace, per difendere la società civile e iniziare un’opera di riconciliazione che va al di là dei semplici compromessi politici. Il conflitto tra sunniti e sciiti richiede, per essere risolto, ma direi anche demitizzato, una rilettura della storia dell’Iraq con un approccio diverso a quello tribale. Questo vuol dire che non si può continuare ad accusare i contemporanei di responsabilità imputate a individui o gruppi del primo secolo della storia islamica.
Da più parti in Iraq come in Occidente si chiede il ritiro delle truppe della coalizione internazionale. Pensa che questa presenza sia ancora utile per la sicurezza del Paese?
Certo, questa presenza rimane utile. Il Governo iracheno comunque la richiede. Ma io parlo anche di una dimensione morale: quelli che hanno disfatto il Paese devono moralmente ricostruirlo. Lasciarlo in piena tempesta non mi sembra né etico né proficuo.
Baghdad è una delle città più violente del Paese. Negli ultimi anni alcune chiese sono state attaccate e alcuni sacerdoti rapiti (uno addirittura ucciso). Lei ha paura per la sua incolumità?
Innanzitutto, il prete ucciso come anche il pastore assassinato, lo sono stati a Mossul, nel Nord. La violenza anticristiana di quella regione supera da anni tutti i limiti. Comunque tutti siamo impauriti e tutti corriamo rischi. Io, comunque, sono figlio della Chiesa. Mi affido alla sua preghiera, all’intercessione dei suoi santi e mi abbandono nelle mani di Colui che si abbandonò nelle mani del Padre.
Secondo fonti di Asianews Milizie islamiche non governative a Baghdad e Mossul ordinano di riscuotere dai cristiani la “jizya”, l’imposta dei tempi dell’Impero ottomano che garantiva il permesso ai non musulmani di praticare la loro fede e ne assicurava la protezione. Può confermare la notizia?
La vera difficoltà dei non musulmani nei Paesi islamici, anche in tempi di pace, è quella di essere ridotti a cittadini di seconda classe, costretti ad acquisire la propria incolumità morale o fisica al prezzo della sottomissione. Tradizionalmente, la sottomissione era concretizzata col pagamento di imposte, di cui la “jizya” o , letteralmente, l’imposta per salvare la propria testa. I gruppi fondamentalisti hanno quindi effettivamente restaurato queste imposte laddove hanno il controllo.
I cristiani sono più o meno liberi di professare la propria religione rispetto ai tempi di Saddam?
La libertà dei cristiani nei paesi islamici, anche sotto Saddam, ha sempre ubbidito a delle regole: il culto va rispettato ma intra muros. I limiti alla libertà di coscienza sono presenti nella politica, nell’amministrazione e davanti alla legge.
Come giudica il testo della nuova Costituzione in materia di libertà religiosa?
La nuova Costituzione riprende con la mano destra quello che aveva concesso con la sinistra. I grandi principi di libertà di coscienza e di opinione sono virtualmente neutralizzati dall’articolo 2 della Costituzione che traduce nelle leggi la supremazia dell’Islam come religione di Stato: tutte le leggi che non concordano con la sharia sono nulle.
Oggi molti cristiani decidono di abbandonare il Paese. È un processo inevitabile?
La presenza dei cristiani in Iraq è millenaria. Ma oggi rischia veramente la scomparsa. L’emigrazione è diventata un esodo inarrestabile. L’aumento quotidiano della violenza, delle minacce e dei crimini uccide la speranza. I cristiani si sentono oramai stranieri e indesiderati nella loro propria patria.
Quale può essere il ruolo dei cristiani per il futuro del nuovo Iraq?
Un ruolo di pacificatori e di mediatori nonché creatori di cultura e di apertura al mondo. Ma per svolgere questo ruolo bisogna che esistano ancora!
Come noi cristiani occidentali possiamo aiutare la comunità cristiana irachena?
Innanzitutto, nel dare l’esempio di comunità credenti e proponendo alle società la ricchezza dell’esperienza cristiana. Poi bisogna attirare l’attenzione sui drammi dei cristiani in questa area del mondo. Nel dialogo con i musulmani, vincendo una certa ingenuità, bisogna chiedere una vera reciprocità, esigendo una rilettura religiosa moderna delle fonti. Infine, tradurre la comunione in gesti di amicizia, di solidarietà concreta, di scambi ecc…

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