Giornale del Popolo, 23 febbraio 2007
Gerusalemme. «Da dove venite?» mi chiede in italiano una suora vestita di grigio. «Lugano, sorella» rispondo io con un filo di voce. Siamo seduti uno accanto all’altra nella penombra della grotta della Natività a Betlemme. Lei ha in mano il rosario, noi del gruppo giovani della Diocesi abbiamo appena terminato di cantare “Tu scendi dalle stelle”. Fuori c’è il sole e il termometro segna più di 20 gradi, ma il Bambino che viene in una grotta “al freddo e al gelo” te lo vedi lì lo stesso, in braccio a sua madre che cerca di scaldarlo. Le facce della gente di Betlemme sono le stesse dei pastori che quella notte arrivarono chiamati dall’angelo. Ma qui sotto capisco che non occorre avere la faccia da palestinese per essere sopraffatto dal loro stesso stupore. Una stella a quattordici punte segna il luogo esatto della nascita, come è esatta, precisa al millimetro, la consapevolezza – che qui sorge – della necessità di quel che successe allora. Dio che si fa uomo. Ci sarebbe stato un altro modo per riempire il vuoto della mia umanità? Non un’idea, non una filosofia, ma un uomo che nasce, cresce e ti offre la sua amicizia infinita. «Sorella, lei invece da dove viene?» domando, sempre sotto voce, a quella che credo essere una pellegrina come me. «Vengo da Pordenone – mi risponde – ma abito a Betlemme da 43 anni». «Lei invece – mi fa indicando la consorella che le siede accanto – viene da Bergamo e ne ha passati qui 51…». Preso alla sprovvista rispondo con la prima cosa che mi viene in mente pensando a una vita spesa in questa terra così santa e così piena di dolore e contraddizione: «Grazie, grazie davvero». «Vedi – risponde – vivere qui è molto bello ma a volte è anche molto difficile ». I nostri sguardi si incrociano nella semioscurità. Io capisco, anche se – certamente – dell’abisso di quella semplice frase qualcosa mi sfugge. La Basilica della Natività è una meraviglia in tanti sensi. È di proprietà degli ortodossi. I frati francescani possiedono invece la Chiesa di Santa Caterina che è stata costruita addosso alla parete sinistra dell’antica basilica bizantina. L’entrata principale della chiesa ortodossa non è alta più di un metro e mezzo. La chiamano “la porta dell’umiltà” perché occorre chinarsi per attraversarla. In realtà fu costruita così in secoli in cui non era raro, da parte di qualche musulmano, entrare nella chiesa dimenticandosi di scendere da cavallo… Insieme a noi arriva alla Basilica il corteo funebre di un parrocchiano arabo cattolico di Betlemme. La bara aperta viene portata a spalla, e la gente canta un inno in lingua araba. Il funerale deve essere celebrato nella chiesa cattolica, Santa Caterina, ma il corteo vuole comunque passare per la “porta dell’umiltà” (le due chiese sono comunicanti). L’esercizio di far passare la bara dalla porta non è cosa semplice, ma i cattolici di qui non rinunciano a questi piccoli gesti ad alto contenuto simbolico.
«Betlemme – ci dice la nostra guida – è diventato un carcere a cielo aperto». Si riferisce alla costruzione del muro che separa Gerusalemme Ovest, israeliana, da Gerusalemme Est, araba. Betlemme è praticamente parte della periferia di Gerusalemme Est. La costruzione della barriera, alta otto metri, è cominciata nel 2004 e da allora gli israeliani non hanno sentito più parlare di kamikaze, mentre i palestinesi non hanno sentito più parlare di libertà di movimento. La cittadina si è bloccata e la disoccupazione e le sue conseguenze sociali hanno preso il sopravvento sulla maggioranza della popolazione. Dopo il 2000, con l’inizio della seconda intifada, i pellegrinaggi si sono interrotti per tre anni. La comunità cristiana, che dei pellegrinaggi vive, sente ancora le ricadute di questa pausa forzata. L’appello dei cristiani è: «Non abbandonateci, continuate a tornare, non fermate i pellegrinaggi ». Ce lo dicono anche i responsabili di una cooperativa di artigiani di Betlemme, quando ci accolgono nel grande spaccio di oggetti di legno di ulivo: presepi, croci, piccole statue, rosari. Noi, che non possiamo fare altro, diamo fondo al portafogli.
La tappa che aveva preceduto l’arrivo a Betlemme non poteva inaugurare meglio la nostra Quaresima. Alle 9.00 di mattina del mercoledì delle ceneri, infatti, visitiamo con mons. Grampa il “Monte della quarantena”. Il monte, cioè, dove si dice che Gesù abbia trascorso i quaranta giorni di digiuno prima dell’inizio della sua predicazione e al termine dei quali fu tentato tre volte dal diavolo. Sul luogo è stato costruito un monastero ortodosso a strapiombo su un burrone. Lo raggiungiamo camminando per un sentiero che si abbarbica lento sul fianco di una montagna brulla. Da qui la vista è mozzafiato. Tutto il complesso è scavato nella roccia e lo stile è tipicamente greco. A custodia del monastero ci sono due monaci. Dai loro volti rugosi scende la lunga barba. Una è bianca, l’altra è nera. Alla fine della visita troviamo il monaco dalla barba nera seduto all’entrata del monastero che scruta l’orizzonte. Mons. Grampa gli si siede accanto e parlando nel suo greco scolastico gli dice: «Salve, io sono un vescovo». Poi mi fa cenno: «Facci una fotografia». Quando il monaco capisce quel che sta succedendo, non ci pensa due volte: si alza e se ne va con l’aria seccata. Questioni ecumeniche o solo di cattivo umore?