DOVE I CINESI NON HANNO GLI OCCHI A MANDORLA

Viaggio nello Xinjiang patria della minoranza musulmana degli uyghuri perseguitata dal governo di Pechino

A Pechino il sole è sorto già da un paio d’ore quando l’alba illumina i grattacieli di Ürümqi, capitale della regione più ad occidente della Cina: lo Xinjiang. Nonostante tra la capitale e questa periferia dell’impero vi siano due fusi orari di differenza, arrivati all’aeroporto di Ürümqi non occorre spostare le lancette dell’orologio perché su tutto il territorio cinese l’unica ora è quella segnata dagli orologi dei dirigenti del partito di Pechino. Gli uffici aprono alle dieci del mattino e comunque esiste un orario ufficioso che fa corrispondere l’ora alla posizione del sole nel cielo. Quando ci si dà appuntamento occorre dunque intendersi bene a quale dei due orari si fa riferimento. Ma il ritardo dello Xinjiang su Pechino non è soltanto una questione di orari. La più grande provincia cinese (la cui superficie è circa 37 volte quella della Svizzera e la popolazione supera i 16 milioni) è toccata solo in modo marginale dal grande fermento economico che si vive sulle coste orientali non solo nella capitale, ma soprattutto in città come Shanghai o Shenzhen. Qui, a parte i grandi cantieri della capitale Ürümqi, il ritmo è molto più lento e la regione – occupata tra l’altro dal secondo deserto più grande del mondo – è ancora un Paese di contadini.

Ma ciò che più colpisce camminando per le strade di Kashgar, una mitica oasi sull’antica Via della Seta, è – banalmente – che gli abitanti non hanno gli occhi a mandorla. Il 60 per cento della popolazione dello Xinjian, infatti, non è di etnia han, quella maggioritaria nel resto del Paese, ma è formata da uyghuri, musulmani di lingua turca. Qui, praticamente al centro del continente asiatico, gli uyghuri vivono da centinaia di anni assieme a tagiki, kirghisi e uzbeki. Kashgar è molto più vicina a Bushkek, Kabul e Islamabad piuttosto che a Pechino, e si vede. Basta passeggiare per le vie del centro o della città vecchia per accorgesi che, a parte le scritte sui cartelli in mandarino (sempre accompagnate dalla versione turca), c’è poco in comune con la Cina che appartiene all’immaginario collettivo. I volti espressivi degli artigiani di strada, dei fruttivendoli o dei macellai che vendono le loro carni lungo i marciapiedi come avviene nei Paesi arabi danno l’impressione di essere in un altro pianeta rispetto gli sguardi inespressivi di chi affolla i grandi magazzini di stile occidentale di Pechino o Shenzhen. I cappelli con la banda di pelliccia nera incorniciano volti scavati dagli anni passati nelle piccole case riscaldate da stufe a carbone. Eppure siamo nella stessa Cina che fu degli imperatori, di Mao e Deng Xiao Ping, Jiang Zemin e oggi Hu Jintao. Qui si è veramente alla periferia dell’impero e l’imperatore per fare sentirsi sentire deve alzare la voce. Lo dimostra il fatto che nella piazza principale di Kashgar sorga una delle più imponenti statue del presidente Mao mai erette, come dire, “avete capito chi comanda qui?”.

Già, perché nonostante nel 1955 Mao abbia concesso allo Xinjiang lo status di Regione autonoma il potere di Pechino non ha mai allentato la presa. Il motivo è semplice: il sottosuolo dello Xingjiang è ricco di carbone, gas e petrolio che fanno la gioia di Petrochina e Sinopec, le due maggiori aziende petrolifere di Stato cinesi. Dagli anni Cinquanta a oggi il governo ha favorito una massiccia immigrazione di popolazione di han, ufficialmente per contribuire allo sviluppo della regione, di fatto per garantirsi il controllo politico ed economico. Basti dire che nella regione negli ultimi dieci anni gli han sono aumentati del 37 per cento, mentre gli uyghiri – pur non essendo sottomessi in quanto minoranza alla legge del figlio unico – del 17 per cento.
Questo atteggiamento, che non a torto si potrebbe definire “imperialista”, unito a una sempre maggiore discriminazione dell’etnia uyghura ha creato un malcontento crescente che ha sollevato nel migliore dei casi istanze di maggior autonomia.

Tutto nasce dal rapporto travagliato tra governo e religione musulmana. Al turista che si rechi a Kashgar tutte le guide segnalano la visita alla moschea Id Kah, fondata nel 1442 e considerata la più grande e importante della Cina. Il tempio, noto per il suo ingresso monumentale, può ospitare diverse migliaia di fedeli all’esterno e al suo interno l’imam si inginocchia su un prezioso tappeto dopo del presidente iraniano in persona. Secondo un dossier pubblicato l’anno scorso da Human Right Watch dalla metà degli anni Novanta il controllo dello stato sull’islam è passato dalla sola volontà di scegliere gli imam e i responsabili delle comunità a vere e proprie vessazioni sui laici. Secondo i dati raccolti da HRW spesso le moschee sono sotto completa sorveglianza da parte dello Stato con lo scopo di scoraggiare la loro frequentazione da parte dei bambini e dei giovani. Per alcuni studenti e membri dell’amministrazione pubblica è stato impossibile partecipare pubblicamente ad attività religiose diverse dall’osservare il precetto dell’astinenza dalla carne di maiale. Altri cittadini di etnia uyghura hanno perso il lavoro o sono stati arrestati soltanto perché considerati troppo religiosi. Uno degli strumenti utilizzati dal governo per attuare la repressione religiosa nello Xinjiang è quella di approfittare dell’annuale campagna contro la criminalità. Mentre nel resto del Paese l’iniziativa colpisce la criminalità in genere in questa regione è utilizzata per reprimere l’attività religiosa degli uyghuri basandosi sull’assunto che essa serva da copertura per iniziative a carattere separatistico. Per HRW ogni anno nella regione sarebbero migliaia gli arresti per “attività religiose illegali” e nel 2004 il partito comunista ha reso noto che nella prima metà di quell’anno erano stati 22 gli individui o i gruppi coinvolti in “attività terroristiche e separatistiche”. Lo Xinjiang, tra l’altro, gode del primato delle sentenze di morte per crimini contro la sicurezza dello stato dal 1997: per ora sono 200.
Dopo l’11 settembre 2001 Pechino ha approfittato della “guerra al terrorismo” per presentare al mondo i gruppi indipendentisti uyghuri come gruppi terroristici ed è riuscita a far inserire il Movimento islamico del Turkestan orientale (ETIM) sulla lista delle organizzazioni terroristiche delle Nazioni Unite. Alcuni uyghuri sono stati arrestati al fianco dei talebani in Afghanistan, ma in patria dal 1998 non si registrino significative attività militari da parte di questo gruppo. Fatto sta che oggi in Cina “indipendentista uyghuro” è sinonimo di “terrorista”. Incontrando i giornalisti di Tele Kashgar, la tv bilingue (cinese-uyghuro) controllata dallo Stato, alla domanda “Informate delle attività dei gruppi indipendentisti?” la risposta pronta è: “Certo, abbiamo fatto alcuni reportage sui terroristi”. Per le strade di Kashgar e Ürümqi si vedono alcune donne coperte da una sorta di shador azzurro di lana grossa. Dicono che negli ultimi anni questi shador siano aumentati e sarebbe il segno di infiltrazioni di correnti fondamentaliste importate dai vicini Pakistan e Afghanistan. Tuttavia la preoccupazione degli uyghuri non sembra essere la religione in sé, quanto piuttosto la percezione di una minaccia alla propria identità di popolo e un sentimento crescente di essere colonizzati dai cinesi di Pechino. Essi vedono nelle restrizioni poste dal governo alla loro religione un tentativo indebolire la loro identità, la loro cultura la loro tradizione di uyghuri .
L’amministrazione dello Xinjiang ha inaugurato lo scorso ottobre a Ürümqi la nuova sede del “museo delle nazionalità” dove, in una struttura monumentale, il visitatore è introdotto in un percorso per conoscere le numerose etnie che convivono nella regione. In uno dei primi pannelli della mostra si legge: “Tra il I secolo a.C e il III secolo d.C tutte le nazionalità dello Xinjinag hanno vissuto basandosi sul proprio lavoro diligente, costruendo dimore bellissime, promuovendo lo sviluppo dell’agricoltura e l’allevamento, sviluppando l’artigianato, il commercio e la comunicazione contribuendo così al progresso della società”. Insomma: è dalla notte dei tempi che qui si vive in modo pacifico, perché smettere proprio adesso?
Il sole cala presto sull’orizzonte dello Xinjiang, quando a illuminare le strade di Pechino sono già i lampioni. Ma fusi orari a parte, la notte della speranza del popolo uyghuro dura 24 ore su 24.

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