dal Giornale del Popolo del 4 novembre 2008
Dodici mesi che non hanno cambiato il corso della storia. Fino ad oggi i motivi per cui Barack Obama sarà ricordato negli annali sono il fatto di essere il primo presidente degli Stati Uniti afroamericano e il fatto di essere succeduto a due mandati di presidenza di George W. Bush. Francamente un po’ poco, rispetto all’entusiasmo che ha caratterizzato prima la sua campagna elettorale e poi il suo insediamento. Eppure anche lui avrebbe il diritto di prendersi il suo tempo, se non fosse che chi ce lo ha presentato lo ha fatto spingendo sull’acceleratore dell’emotività facendo credere che una volta al potere “il volto nuovo” tutto sarebbe cambiato. Un buon modo per vincere le elezioni, un po’ meno per governare per più di un mandato. Chi è stato convinto dalla retorica della speranza ora chiede che le cose cambino davvero. Per questo Barack Obama oggi deve diffidare innanzi tutto da quelli che si dicono suoi amici e che, anziché aiutarlo a realizzare quel che ha promesso, alimentano aspettative su aspettative aumentando il potenziale margine di delusione nei suoi confronti.
L’esempio più eclatante è stato quello del Nobel per la Pace che ha costretto Obama ad essere il primo destinatario dell’onoreficenza pacifista a firmare, settimana scorsa, il più ricco bilancio militare della storia degli Stati Uniti (680 miliardi di dollari, venticinque milioni in più rispetto all’ultimo bilancio del guerrafondaio George W. Bush). I signori del Nobel, insomma, hanno trasformato Obama in una barzelletta vivente. Obama diffidi anche in coloro che, soprattutto in Europa, insistono a dipingerlo come colui che ha azzerato la politica estera del suo predecessore. Oltre a non essere vero nella sostanza, a ben vedere, non è vero neanche nei modi. La mano tesa al mondo musulmano (e all’Iran in particolare) è certamente un bel gesto, ma nel caso di un rifiuto dell’altra parte potrebbe trasformarsi in un insidioso boomerang. Per quanto riguarda i fronti di Iraq e Afghanistan assistiamo a un attendismo che finora non ha fatto altro che dare respiro ad al Qaida e ai Talebani: la promessa elettorale del ritiro delle truppe oggi è una scomoda palla al piede.
Anche sul fronte della politica interna sono diversi le sfide che potrebbero infrangere il mito di Obama. La sua ambizione di realizzare quello che a nessun altro suo predecessore è riuscito, e cioè la riforma della Sanità, potrebbe ritorcerglisi contro. Una riforma raffazzonata e frutto di mille compromessi potrebbe consegnarlo alla storia come colui che ha fatto la toppa peggio del buco. La cosa potrebbe costargli molto caro, visto che gli americani votano basandosi prevalentemente sui risultati in politica interna. C’è poi il fronte dei temi eticamente sensibili: dopo le promesse acrobaticamente pro-choice (della serie: io sono contro l’aborto, ma le mie convinzioni personali non posso giocarle in politica) da una parte ha ritoccato in peggio gli importanti passi avanti fatti da Bush, dall’altra non ha avuto il coraggio di farlo fino in fondo. Deludendo i questo modo i suoi elettori pro-choice. Resosi conto, tra l’altro, della tensione montata nei confronti del mondo cattolico, Obama è corso subito ad incontrare Benedetto XVI prima che le cose precipitassero e perdesse definitivamente credito presso l’elettorato cattolico.
Ultima osservazione: in campagna elettorale la parola d’ordine è stata “hope”, speranza. Un modo elegante per spostare il problema nel futuro. Ecco, quel che è singolare è che un anno dopo la sua elezione siamo qui a parlare di quella medesima parola. Il fatto è che la speranza o si fonda su qualcosa di presente, oppure è mera e irrealizzabile utopia. Per Obama è venuto il tempo di dimostrare qualcosa nel presente. Sul fatto di non essere Bush ha già tirato avanti un anno.
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