Save The Date: 21 maggio 3015. Black Square di Taryn Simon

Taryn Simon, Black Square VIII
Taryn Simon, Black Square, 2006–
Void for artwork 31 1⁄2 x 31 1⁄2 inches (80 x 80 cm)
Permanent installation at Garage Museum of Contemporary Art, Moscow

Ho letto sull’ultimo numero di Aperture un’intervista a Taryn Simon che parla di questa sua opera conservata al Garage Museum of Contemporary Art di Mosca.

Riproduco qui la mia traduzione della didascalia che accompagna l’opera:

Nell’anno 3015, circa un migliaio di anni dopo la sua creazione, un quadrato nero realizzato con scorie nucleari vetrificate occuperà questo spazio. Fabbricato il giorno 21 maggio 2015, il Quadrato Nero è attualmente conservato in un contenitore di acciaio e cemento armato all’interno di una camera di tenuta, circondata da terreno ricco di argilla, presso l’impianto di smaltimento dei rifiuti nucleari Radon a Sergiev Posad, che si trova 72 km a nord est di Mosca. L’opera rimarrà nell’impianto di Radon fino a quando le sue proprietà radioattive non siano diminuite a livelli ritenuti sicuri per essere esposto per gli uomini in una mostra. All’interno del Quadrato Nero sono state fuse due capsule cilindriche d’acciaio all’interno delle quali c’è una lettera che Taryn Simon ha inviato al futuro.

Il processo di vetrificazione porta i rifiuti radioattivi da un stato liquido volatile a una massa solida stabile simile a un vetro nero lucido. È considerato uno dei metodi più sicuri e più efficaci per la conservazione a lungo termine e la neutralizzazione delle scorie radioattive. Quadrato Nero XVII è stato creato in collaborazione con l’azienda di Stato russa per l’Energia Atomica (Rosatom), in occasione del centenario della prima esposizione del Quadrato Nero di Kazimir Malevich. Quadrato Nero XVII di Taryn Simon è composto scorie nucleari di medio livello e lungo termine contenenti liquidi organici, liquidi inorganici, fanghi e polveri chimiche provenienti da una centrale nucleare di Kursk, e da elementi farmaceutici e chimici provenienti dalla regione della attorno a Mosca.

Di Taryn Simon avevo già scritto qui e penso che il grande successo che ha ottenuto negli ultimi anni se lo sia tutto guadagnato.

Questa opera, in particolare, mi pare abbia una forza tutta particolare perché, in un clima culturale in cui il respiro è sempre a breve termine e si richiede che il risultato di un’opera – che sia artistica o meno non importa – abbia un risultato tangibile immediato, ecco: lei ci dà appuntamento tra mille anni. Nessuno di noi vedrà l’opera finita e neanche lei sa se il progetto cadrà o meno nell’oblio. Però oggi ci dice due cose importanti:

1) Ci sono cose che realizziamo oggi le cui conseguenze potranno essere viste solo tra diversi secoli.

2) Le idee possono anche invecchiare, ma non si deteriorano col tempo. Questa da una parte è la loro forza, dall’altra la loro pericolosità.

Taryn Simon
Taryn Simon

Maria Primachenko, genio visionario nella campagna ucraina

Maria Primachenko

Una volta, da bambina, inseguivo un branco di oche. Quando raggiunsi una spiaggia di sabbia, sulla riva del fiume, prima di attraversare un campo punteggiato di fiori selvatici, iniziai a disegnare con un bastone sulla sabbia fiori reali e immaginari… Più tardi, decisi di dipingere i muri della mia casa usando pigmenti naturali. Dopo di ché  non ho più smesso di disegnare e dipingere

Maria Primachenko

Aleksey, un amico ucraino, mi ha fatto conoscere una pittrice straordinaria che non conoscevo. Si chiama Maria Primachenko e in questi giorni il Mystetskyj Arsenal, a Kiev, le dedica una grande retrospettiva con 300 opere.

Maria Primachenko, Elephant, 1937
Maria Primachenko, Elephant, 1937.

Maria è nata nel 1908 in una famiglia contadina del villaggio di Ivankiv Raion, a 30 chilometri da Chernobyl. Era malata di poliomelite e durante la Seconda guerra mondiale perse il marito e un figlio. Attraversò la carestia degli anni 30, il famigerato Holodomor, prodotto dalle politiche di Stalin nel quale morirono milioni di ucraini.

Maria Primachenko, Lion, 1947
Maria Primachenko, Lion, 1947.
Maria Primachenko, Father Frost Carries the New-Year Tree, 1960
Maria Primachenko, Father Frost Carries the New-Year Tree, 1960.
Maria Primachenko, Two Parrots Took a Walk Together in Spring, 1980
Maria Primachenko, Two Parrots Took a Walk Together in Spring, 1980.

Mentre accadeva tutto questo Maria dipinse quadri meravigliosi, dalle figure oniriche e dai colori intensi, un trionfo di fantasia e gioia di vivere. Pur rappresentando l’opposto logico del realismo socialista, e costruendo il proprio alfabeto visivo sulla tradizione popolare, il regime non le mise mai i bastoni tra le ruote.

Ebbe molto successo già in vita e le sue opere furono esposte in tutta l’Unione Sovietica e anche all’estero. Si dice che Pablo Picasso, dopo aver visitato una sua mostra a Parigi, disse: «Mi inchino di fronte al miracolo artistico di questa brillante artista ucraina».
Oggi queste immagini restituiscono un senso di incredibile contemporaneità. Sembrano disegnate ieri da un’illustratore di New York (o di Milano), mentre alcune sono state realizzate nella metà degli anni Trenta.

 Maria Primachenko, While This Beast Drinks Poison, a Snake Sucks His Blood, 1982
Maria Primachenko, While This Beast Drinks Poison, a Snake Sucks His Blood, 1982.

Rachel Rose: Everything And More

Quando sono stato al Whitey Museum di New York, il mese scorso, ho visto la videoistallazione dell’artista americana Rachel Rose, classe 1986, intitolata Everything And More.

Rachel Rose, Everything and more

Il lavoro parte dall’intervista audio a David Wolf, un astronauta della Nasa che ha trascorso un periodo sulla stazione spaziale MIR. Wolf racconta le esperienze sensoriali fatte nello spazio. Rose intreccia questo racconto con un altro audio realizzato campionando una celebre esibizione di Aretha Franklin del 1972 nella quale canta Amazing Grace della quale seleziona solo le parti non verbali. “Sopra il video” scorrono immagini di diverso genere: concerti di musica elettronica, un laboratorio in cui si simula l’assenza di gravità e immagini astratte realizzate dalla stessa Rose mescolando olio, latte e altri prodotti.

Rachel Rose, Everything and more Rachel Rose, Everything and more

L’opera è proiettata su uno schermo semitrasparente e l’istallazione dialoga con le vetrate antistanti, quasi in una citazione di Robert Irwin. Scrive Christopher Y. Lew in un saggio dedicato al video:

For Everything and More, she integrates an essayistic, expository mode with an idiosyncratic poetry. Through the compilation of seemingly unrelated material—first-person narration, music ranging from gospel to electronic dance music (EDM), and swirling chemicals—she has created a work that goes beyond its constituent parts to address ideas of human perception through direct experience and an emotive sensibility.

L’opera ha una forte connotazione pittorica. Ha un’anima epica e intima allo stesso tempo. Tiene insieme l’epopea della conquista dello Spazio e la dimensione personale della percezione. Sa essere visionaria e analitica. Una bella sorpresa.

Rachel Rose aveva esposto lo scorso lo scorso autunno anche alla Serpentine Gallery di Londra. In questo video racconta l’opera Palisades:

Arian Gheie fa il botto a Sotheby’s

Adrian Ghenie

Praticamente è successo che l’altro giorno a Sotheby’s a Londra un quadro del pittore rumeno Adrian Ghenie, classe 1977, è stato battuto per un sacco di soldi: 3,1 milioni di sterline. Parecchio in assoluto e parecchio se si tiene conto che la stima di partenza era di 400-600mila sterline. Non male per l’asta che The Art Newspaper definisce come quella che ha segnato la fine del boom delle aste d’arte contemporanea.

Sul povero Ghenie si è scagliato sua maestà Jerry Saltz che su Facebook ha scritto cose poco lusinghiere su di lui

Not one original idea about color, surface, gesture, subject matter, scale, viscosity, nuttin’ honey. Thickish paint to seem like serious painting. Unfinished bits to let us know it’s modern and self-aware. – Every painting is pretty huge. But it could be great too. Looks a lot like art.
I have been on about how shit this artist is since the beginning; just another artist who makes art that looks like other art that art collectors buy because it looks like what other art collectors buy!)
Which is cool too I guess.

Mi sembra perlomeno ingeneroso. Almeno da quanto abbiamo visto con i nostri occhi al Padiglione Rumeno dell’ultima Biennale di Venezia. Se una cosa si può dire su Ghenie è che sa dipingere davvero bene. Ha una “padronanza del mezzo” davvero notevole. Poi, è vero, si ha l’impressione di vedere lì Bacon, qui Richter, là Polke… È una pittura all’insegna del sincretismo. Ma chi oggi è in grado di sintetizzare la lezione tutti questi grandi messi insieme in modo così credibile?

Lasciamo perdere il prezzo d’asta, chissene frega. Si vede lontano un miglio che il successo di Ghenie è creato a tavolino. Però mi pare resti una sorpresa per la pittura degli ultimi anni. Non l’artista più originale degli ultimi tempi, ma una voce profonda e intonata, dal timbro corposo e virile. Che vale la pena ascoltare.

Stiamo a vedere da che parte andrà in futuro.

Qui qualche immagine scattata a Venezia:

Adrian Ghenie
Adrian Ghenie

Adrian Ghenie
Adrian Ghenie

Adrian Ghenie
Adrian Ghenie

Qui un video sulla mostra alla Pace del 2014:

 

Un disegno del padre di Dan Vo

Sono stato al Whitney Museum di New York. Tra le diverse cose mi ha colpito un’opera vista nella mostra sulla collezione di Thea Westreich Wagner e Ethan Wagner. L’opera è questa:

Danh Vo 02.02.1861, 2009
Danh Vo 02.02.1861, 2009

Ho trovato questa breve spiegazione che l’artista fa dell’opera:

«Il Vietnam è l’unico paese asiatico che durante il dominio francese è passato all’utilizzo dell’alfabeto latino. Tradizionalmente, un abile calligrafo può trovare lavori migliori. Mio padre non ha mai utilizzato le sue capacità di scrittura dal suo arrivo in Danimarca, anche perché non ha mai imparato il danese e nessun’altra lingua europea. A volte ho visto la sua calligrafia perché l’ho visto scrivere i cartelli per i suoi negozi di alimentari che nel corso degli anni ha avuto vivendo in Occidente.
L’opera consiste nel fatto che mio padre copia l’ultima lettere di San Theophane Venard a suo padre prima che venga ucciso e decapitato dai funzionari vietnamiti nel 1861. Mio padre non sa che cosa è scritto nella lettera, ma è contento di copiarla perché lo pago per ogni copia che fa. Dovrebbe ricevere 150 dollari ogni volta.
È uno dei miei lavori preferiti. Si tratta di un disegno perché mio padre sa l’alfabeto, ma non sa quello che sta scrivendo» (Danh Vo)

Il titolo dell’opera e il numero di edizioni del lavoro rimane indefinito fino alla morte di Phung Vo (padre di Dahn). Ogni testo scritto a mano arriva in una busta ed è spedito da Phung Vo a chi acquista l’opera.

Tra l’altro: a chi sa il francese consiglio di leggere la lettera.

Yuri Ancarani: lapidi incatenate e riti vudù

Fino al 6 marzo, la Triennale di Milano presenta una mostra interessante curata da Vincenzo de Bellis che si intitola Ennesima – Una mostra di sette mostre sull’arte italiana. Vale la pena andare a dare un’occhiata, perché mi è parsa una mostra intelligente e, con un po’ di pazienza, si possono anche imparare delle cose.

Ma qui è di un’altra cosa di cui vorrei parlare, e cioè di un’opera di Yuri Ancarani, un videoartista di Ravenna, classe 1972, esposta nell’ultima sezione della mostra. Titolo: Baron Samedi (2015).

È un’opera di grande poesia. Due video HD uno sopra l’altro mostrano immagini girate nel cimitero in rovina di Port au Prince, ad Haiti. Popolato soltanto da capre selvatiche, colpisce per le lapidi incatenate per paura della profanazione dei praticanti di riti vudù e per il timore che i morti possano uscire a mo’ di zombie.

Molti temi si intrecciano: la morte, la superstizione, le rovine di un cimitero in un Paese che è una rovina di per sé. Ma la cosa che impressiona di più è quella di Ancarani di creare un ritmo visivo e cromatico che accarezza quel groviglio tematico di cui sopra.

Ancarani si conferma un artista di spessore, dopo che aveva colpito nel segno alla Biennale del 2013, chiamato da Massimiliano Gioni, dove ha portato l’opera Da Vinci (ne parlava qui). Yuri Ancarari, Baron Samedi, 2015 Triennale Yuri Ancarari, Baron Samedi, 2015 Triennale Yuri Ancarari, Baron Samedi, 2015 Triennale Yuri Ancarari, Baron Samedi, 2015 Triennale

BORIS MIKHAILOV A TORINO, CHE BELLA SORPRESA

boris mikhailov superimpressions torino camera Una delle sorprese di questo 2015 è stata la prima stanza di Ukraine di Boris Mikhailov, la mostra che ha inaugurato lo spazio Camera di Torino. Si tratta di uno slide show composto da immagini realizzate con la sovrapposizione di diapositive a colori che risalgono all’inizio della carriera del fotografo ucraino (tra la fine degli anni Sessanta e la fine dei Settanta). Superimpression è una carrellata di raffinati “collage” che trasformano le istantanee della vita quotidiana nella severa Kharkiv sovietica nel ritratto di un mondo onirico e personalissimo. Reazione al realismo della propaganda di regime, questo viaggio per immagini è un fiorire continuo di idee plasmate da forme e colori. A volte drammatico a volte ironico, è lo specchio di una mente libera e ribelle. Molto affine alla sperimentazione che contemporaneamente si sviluppava dall’altra parte della Cortina di ferro, quella di Mikhailov è una ricerca che riesce ancora comunicare un’energia espressiva sorprendente. Bella anche il resto della mostra, curata e allestita molto bene da Francesco Zanot, che racconta di una carriera di alto livello ma che non riesce a stare all’altezza della felicità di quel primo momento di ispirazione così pura. boris mikhailov superimpressions torino camera boris mikhailov superimpressions torino camera boris mikhailov superimpressions torino camera

ALBERTO GARUTTI, PERCHÉ È ARTE?

Questa intervista è stata pubblicata sul numero di ottobre di Tracce

Quattro chiacchiere con #albertogarutti #tenerevivoilfuoco #contemporaryart #milano

Una foto pubblicata da Luca Fiore (@lfiore) in data:

Alberto Garutti è uno dei protagonisti della mostra del Meeting di Rimini Tenere vivo il fuoco. Sorprese dell’arte contemporanea. Nasce a Galbiate, provincia di Lecco, nel 1948. Fino al 2013 è stato docente di Pittura all’Accademia di Brera, e continua a insegnare a Venezia e al Politecnico di Milano. Chi ha visto la mostra di Rimini ha conosciuto una delle sue opere più famose, Temporali, istallata al Maxxi di Roma nel 2009. Mille potenti lampade, collegate al Centro Sperimentale Italiano, che si accendevano ogni volta che sul territorio italiano cadeva un fulmine. Per spiegare l’opera Garutti ha utilizzato 450 mila copie del giornale freepress City, sulla cui copertina compariva la scritta: «In una sala del nuovo Maxxi le luci vibreranno quando in Italia un fulmine cadrà durante un temporale. Quest’opera è dedicata a tutti coloro che passando di lì penseranno al cielo». In tanti ne hanno colto la poesia. Moltissimi hanno fatto domande. Siamo andati a rivolgergliele direttamente.

A Rimini chiedevano: «Perché questa opera di Garutti è arte?».
Io non so rispondere a questa domanda… Quell’opera parla del cielo, di quel grande enigma sospeso sulle nostre teste… Lo stesso enigma che ha a che fare con l’arte. Che cosa è veramente? Ogni volta che mi trovo davanti alla linea dell’orizzonte si presenta questa domanda. Mi torna spesso in mente Borges: l’universo è inconcepibile.

Perché?
Ciò che più conta nell’arte è la misteriosità dell’evento visivo. Ho insegnato a lungo e, come tutti i docenti, so che l’arte non si può insegnare. È possibile insegnare a suonare il pianoforte, ma non a diventare Mozart, esattamente come si può insegnare a scrivere, ma non ad essere Borges. L’arte è un grande enigma.

Se non possiamo dire cos’è, sappiamo almeno da dove nasce?
L’arte è il tentativo di andare oltre una soglia, nasce dal rapporto con un limite. Esplora nuove sensibilità e scenari diversi, è una straordinaria esperienza conoscitiva. Io penso che abbia in sé anche una tensione che è in relazione con degli eventi biologici, come la volontà di proseguire la propria specie. Non sono un filosofo, ma l’uomo dà molti nomi ad un’esigenza profonda che ha a che fare con il desiderio di generare. E questo, se ci si pensa, è un altro mistero.

Lei dice che la verità di un’opera, se c’è, è nell’andare verso. Quindi è una verità che non si può possedere?
Credo che pensare di possederla sia un errore. È come per chi sceglie di entrare in convento: decide di iniziare un percorso, un andare verso; questo mi sembra una grande cosa. L’aver fatto questa scelta non consente di sentirsi giunti a destinazione. Più passa il tempo più si mostra un enigma. Questa è la cosa formidabile dell’arte, d’altra parte io dico sempre che l’arte tende sempre alla perfezione perciò è sempre imperfetta. È indicibile, indecifrabile, inconcepibile: in ogni caso continua a mandarci dei segnali, a porci delle domande…

L’altra domanda che molti facevano a Rimini è: «Dove è finita la bellezza dell’arte antica? Nell’arte di oggi non c’è più».
Il termine bellezza è in sé sfuggente, occorre riappropriarsene continuamente. Un oggetto che cinquant’anni fa veniva considerato brutto oggi magari viene rivalutato e preso a modello. È una parola che comunemente viene usata con leggerezza, ma ha in sé sia una dimensione estetica che una interiore. Ad ogni modo è sempre legata alla sensibilità dell’uomo nella storia, alla sua vita. Per comprenderla meglio mi piace accostare alla parola bellezza l’aggettivo vitale.

D’accordo, ma l’arte antica?

L’arte del passato aveva uno scopo didattico e conoscitivo, aveva l’esigenza di comunicare una narrazione specifica. I grandi committenti del passato, i principi, i signori e soprattutto i Papi, desideravano comunicare al popolo degli episodi concreti molto precisi e non competeva all’artista reinterpretare arbitrariamente questi fatti. Ma per rappresentare questi temi si affidavano a un artista capace di garantire, oltre all’ortodossia del contenuto, anche una propria visione che interpretasse la sensibilità del tempo. Per questo vennero scelti alcuni importanti artisti che allora erano informatori capaci di raccontare attraverso le loro opere varie storie; ad esempio Giotto venne scelto per narrare la storia di san Francesco, affinché il popolo potesse comprendere meglio.

Adesso non funziona più così.

Ma anche allora il problema era più complesso: l’arte non si limita alla narrazione. Esiste il tema del linguaggio. Per esempio, una Madonna col Bambino di Giotto: dalla tensione della Madonna si percepisce il peso reale e consistente di quel bambino. Se pensiamo, invece, alla pittura bizantina notiamo subito uno scarto linguistico: figure piatte su fondo oro, metafisico. Con Giotto l’uomo comincia a essere un corpo, un corpo reale. Questi esempi mostrano come la storia dell’arte, e quindi la storia dell’uomo, sia percorsa da una ricerca sul linguaggio per portare significati diversi. Non è più solo narrazione.

È una visione del mondo…

Basti pensare alla differenza tra la Crocifissione di Masaccio in Santa Maria Novella e la Deposizione di Rosso Fiorentino di Volterra. Raccontano la stessa storia, ma il modo in cui sono dipinte mostra una diversa visione dell’uomo. Si passa dalle certezze del primo rinascimento ai dubbi del manierismo che si approfondiscono fino ad arrivare al buio enigmatico di Caravaggio.

L’arte di oggi, però, sembra aver perso il rapporto con la realtà.
L’arte, quando è vera, ha sempre un rapporto stretto con la realtà. E ha sempre un’implicazione narrativa, anche nelle opere concettuali. Diciamo che da quando hanno inventato la fotografia, l’arte comincia a occuparsi sempre più di quello che non è possibile vedere con gli occhi e questo, inevitabilmente, crea dei problemi perché aumenta la complessità dell’opera stessa.

E lei? Prova a opporsi a questa confusione?
Faccio quello che posso, ed è quello che cerco di fare con il mio lavoro e forse in particolare negli spazi pubblici. Il mio tentativo è di affrontare un’opera anche dal punto di vista etico, in rapporto cioè con gli altri, con le persone, la gente… E la gente siamo noi. Così nelle mie opere parlo, ad esempio, della nascita, che riguarda tutti. Parlo dei fulmini, perché il cielo è di tutti… Posso anche pensare che un’opera d’arte può considerarsi tale solo nel momento in cui viene resa pubblica.

Perché?
Perché appartiene agli altri, non è più mia. È come avere un figlio. Quando ho portato mio figlio per la prima volta all’asilo ho capito una cosa importante che era il lasciarlo andare con la maestra insieme agli altri bambini. E lì ho realizzato che l’atto d’amore veramente formidabile è quando lo consegni al mondo, gli consenti di uscire dalla dimensione famigliare, in qualche modo lo rendi “pubblico”. La stessa cosa avviene con le opere. Sono per la gente, ma bisogna fare attenzione e occorre portare il lavoro a un livello linguisticamente molto sofisticato per non scadere nel populismo demagogico.

Il cardinale Parolin, l’anno scorso al Salone del libro di Torino, ha girato al mondo della cultura la domanda di Gesù: «Dov’è il vostro tesoro? Perché è là il vostro cuore». Dov’è il tesoro di Alberto Garutti?
È una domanda difficile: da una parte sono rivolto agli affetti personali, dall’altra al mio lavoro, che non è soltanto un mestiere ma è ciò di cui mi nutro, un modo di esistere, di stare al mondo. Boetti in una sua opera dice: Mettere al mondo il mondo. Per me è esattamente questo: un tentativo di conoscenza e un desiderio profondo di generare, uno slancio assoluto. Ha a che fare con il protendersi oltre i propri limiti e permette di accedere a una dimensione universale. Tutto questo mi è necessario, forse rientra in qualche meccanismo profondo di conservazione della specie… Se per esempio mi dicessero che da domani non potrò più fare l’artista, per me sarebbe durissima.

Perché ha a che fare con la vitalità?
Ha a che fare con la vita.

ROVERETO, UNA MOSTRA AL TERMINE DELLA NOTTE

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di maggio di Tracce

"Brameranno morire, ma la morte li fuggirà" #WernerHerzog @mart_museum #MuseumWeek

Una foto pubblicata da Luca Fiore (@lfiore) in data:

Aveva un braccio solo, il sinistro. L’altro lo aveva perso combattendo sulle rive dell’Isonzo con la divisa dell’Impero austroungarico. Chi avesse visitato Praga prima del 1976, avrebbe potuto incontrarlo, sul ponte Carlo o attorno alla cattedrale di San Vito. Un vecchio trasandato che trascinava un grande apparecchio fotografico di legno. La guerra lo privò di una parte di sé, necessaria per il mestiere di legatore al quale era destinato. Visse per sei anni, dal 1922 al 1927, nell’Invalidovna, la casa dei reduci della capitale cecoslovacca. È qui che iniziò a fotografare, osservando uomini, ombre e oggetti. Si chiamava Josef Sudek, il «poeta di Praga», uno dei più grandi fotografi del mondo. È lui uno dei protagonisti della mostra al Mart di Rovereto, dedicata al centenario della Grande Guerra, inaugurata nel 2014 ma che resta d’attualità anche in questo maggio 2015 a cento anni dall’entrata in guerra del nostro Paese. Il titolo, rubato da una poesia di Bertolt Brecht, recita La guerra che verrà non è la prima e fa subito capire che non si tratta di un’operazione che guarda al passato. Qui, per una volta, grazie al lavoro di coordinamento di Cristiana Collu, direttrice del museo fino a pochi mesi fa, la consunta espressione historia magistra vitae prende corpo in modo persuasivo. Le opere e i reperti d’epoca sono la spina dorsale di un discorso, magari rapsodico e non sistematico, che coinvolge immagini e opere disseminate lungo tutto il secolo passato. Dal Futurismo all’arte concettuale. Perché, come la storia di Sudek insegna, certe ferite si trovano anche là dove non te le aspetti. Così la Grande Guerra dialoga con l’Afghanistan, l’Iraq, il Kosovo. Ma, come convitati di pietra, appaiono anche Siria, Nigeria e Ucraina. L’oggi, insomma.

Corpi straziati. Il percorso si apre con una potente opera del 2000 dell’artista belga Berlinde de Bruyckere, intitolata In Flanders Fields (Nei campi delle Fiandre). Cinque figure di cadaveri di cavalli, realizzate a partire da calchi e rivestite della pelle degli animali stessi. Un anti-monumento equestre, nato dalla commissione ricevuta dal museo di Ypres, teatro di cinque violentissime battaglie durante la Prima Guerra. Lì, nel 1917, i tedeschi sperimentarono per la prima volta il gas mostarda nelle trincee nemiche. La De Bruyckere era andata a guardarsi la documentazione fotografica di quelle battaglie, scoprendo che, al pari dei soldati, sul campo rimanevano anche i corpi straziati degli animali. Così, la carneficina umana viene rappresentata indirettamente: l’orrore del sangue è evocato, senza il bisogno di raffigurarlo. È la violenza dell’uomo che si abbatte su se stesso e sulla natura. A contemplare le membra contorte dei cavalli, sulla parete, ci sono sei fotografie di Paola De Pietri. Sembrano normali paesaggi di montagna. In realtà è quel che rimane delle ferite della guerra sul territorio del fronte italo-austriaco. Ora l’erba e la neve coprono le voragini scavate dalle bombe, gli avvallamenti delle trincee, i tornanti delle mulattiere. Una natura non più vergine, come poteva essere quella catturata dalla macchina fotografica di Giuseppe Garbari: la neve immacolata sulle creste dell’Adamello nell’Anno Domini 1895.

Rosso sangue. Di nuovo la natura è protagonista nell’estratto del documentario di Werner Herzog, Lektionen in Finsternis, del 1992. La telecamera riprende a volo d’uccello quel che rimane del territorio kuwaitiano dopo la ritirata delle truppe irachene. La Prima guerra del Golfo è finita, non si spara più. Restano accese soltanto le lingue di fuoco che salgono dai pozzi di petrolio incendiati. Le nuvole di fumo si specchiano sulle acque. Una colonna di veicoli distrutti giace nel deserto come una carovana colta di sorpresa dalla fine del mondo. La voce narrante recita frasi dall’Apocalisse: «In quei giorni gli uomini cercheranno la morte, ma non la troveranno; brameranno morire, ma la morte li fuggirà».
Poco prima avevamo visto una teca che mostrava i “luttini”, le immaginette per ricordare i mariti o i figli uccisi al fronte. Una sfilza di volti di ragazzi accostati alle preghiere delle loro madri, mogli o fidanzate. Viene in mente il rosario di fototessere viste su internet degli uccisi innocenti in Kenya o in Libia. Sulla parete, le formelle in bronzo del grande Arturo Martini, che fonde le immagini di una sorta di Via Crucis del soldato: I reticolati, Le crocerossine, I gas asfissianti, La messa al campo.
La pietà popolare e la tracotanza interventista. A volte contrapposte, a volte confuse. Il patriottismo e il nazionalismo. Il culto della bandiera, la retorica della guerra tornati di moda nella nostra Europa del XXI secolo. Lascia col sangue gelato la sequenza di fotografie della cattura e dell’esecuzione di Cesare Battisti. Basti guardare il sorriso del carnefice trionfante sul cadavere del patriota stampato sulle pagine dei giornali. Lo stesso compiacimento della morte usato oggi come propaganda dall’internazionale del terrore. Poco distante, appoggiato a terra, il quadro iperrealista datato 2009 del pittore Andrea Facco. Si intitola Monumento alla pittura N.1 e rappresenta con fedeltà fotografica la lapide con la scritta: «Qui Umberto Boccioni artista e soldato d’Italia trovava la morte il 16-VIII-1916». Zang Tumb Tumb.
Lungo il matroneo circolare progettato da Mario Botta sono esposti i reperti di guerra riemersi di recente a seguito della ritirata dei ghiacciai. Filo spinato, elmetti, scudi da trincea e quei commoventi settantasei soprascarponi di paglia intrecciata che scaldavano i piedi delle vedette austriache. Poco distante, la parete più riuscita della mostra: uno dei “sacchi” di Burri (1956) con una sottile lingua di tessuto rosso e una “combustione” di plastica, anche qui, rossa. A fianco il video del 2010 dell’artista iraniana Gohar Dashti: il primo piano di una garza bianca che lentamente si tinge di rosso. Il sangue è rappresentato, di nuovo, in modo indiretto evocando una ferita che non è soltanto fisica, ma che segna il corpo e l’anima dell’uomo del Novecento e che, stando al contraccolpo, non ha ancora smesso di sanguinare.
La mostra è ricchissima ed è impossibile ripercorrerne tutti i passaggi e le suggestioni. L’opera finale, però, sarà difficile da dimenticare. È la Pietà du Kosovo di Pascal Convert, ispirata a un’immagine del fotoreporter Georges Mérillon, che aveva immortalato la veglia funebre di un ragazzo ucciso dalla polizia serba. Convert ne realizza un calco su cera a grandezza naturale. Le nove figure di donna e il corpo disteso del giovane tornano alla forma del negativo fotografico ed è come se si imprimessero non solo nella parete di cera, ma anche nell’animo dello spettatore. Il riferimento al tema del compianto, preso dalla tradizione figurativa occidentale e ricorrente anche nella pratica dei reportage dalle guerre di oggi, è come se desse, a ritroso, il tono a tutta la mostra.

Domanda scandalosa. «Non abbiamo messo in campo un tragitto senza fine e senza speranza», scrive Cristiana Collu nell’introduzione al catalogo: «Nonostante il titolo, preso in prestito dal poeta, ne abbiamo fatto un viaggio al termine della notte. Con il soccorso della poesia, abbiamo preso la parola. In battere e in levare abbiamo cercato di rappresentare la ferita, il dolore, la tenerezza. Senza precipitare nella banalità del male e senza vuoti di memoria, ma con lo sguardo verso l’aperto che si leva dall’orrore umano che non si può dire, che non si può rappresentare, ci siamo spinti verso qualcosa di più simile a una preghiera». La preghiera che anche oggi si smetta di morire. La preghiera che non riaccada più. La preghiera dell’uomo davanti al cielo rischiarato dalla luna, come lo rappresenta il video del 2009 di Luca Rento. Quella silhouette nella notte, in ginocchio. Gli alberi che si muovono, le montagne. Ad innalzare la domanda più umana e scandalosa. Sulla guerra, sulla morte, sulla vita.

BUON NATALE DA NO NAMEBUON NATALE DA NONAME

Rembrandt, Adorazione dei pastori: con lampada, 1654 circa.
Rembrandt, Adorazione dei pastori: con lampada, 1654 circa.

Ich steh an deiner Krippen hier,

o Jesulein, mein Leben,

Ich stehe, bring und schenke dir,

was du mir hast gegeben.

Nimm hin, es ist mein Geist und Sinn,

Herz, Seel und Muth, nimm Alles hin,

und laß dirs wohlgefallen.

 

In piedi, accacnto alla Tua greppia, io sono

o Tu, mia vita, piccolo Gesù.

Io vengo: qui Ti porto e ti offro in dono

tutto quello che mi hai donato Tu.

Prendi: ecco il mio spirito, i miei sensi,

cuore, anima, ardore, tutto prendi!

Possa l’offerta avere il Tuo consenso.

(trad: Quirino Principe)

 

J.S. Bach, Weihnachtsoratorium, BMV 248, Chorale: “Ich steh an deiner Krippen hier”: