NAN GOLDIN E LA SUA SCOPOFILIA (DAL GRECO)

Nan Goldin, Chimera, 2013, Scopofilia
Nan Goldin, Chimera, 2013

Se non mi fossi dimenticato il portafoglio a casa, sarei uscito da Art Basel con queste due opere di Nan Goldin. Fanno parte di una serie di immagini intitolata Scopofilia (= amore per la visione) In mostra fino alla settimana prossima alla Matthew Marks Gallery di Los Angeles. È un lavoro commissionato alla grande fotografa americana dal Louvre. Qui il comunicato stampa che dice tutto. Qui altre immagini.

A me pare che la Goldin attraverso questa giustapposizione di opere storiche e proprie fotografie ci dia come un “libretto di istruzioni” per rileggere la sua opera precedente. A dispetto dei temi, lo sguardo di Nan è uno sguardo classico, pittorico. L’uso della luce e l’attenzione al corpo sono quelle della tradizione. Poi ci sono le botte, il sesso, la droga, l’alcool, il sesso (l’ho già detto), ma il modo di guardare – forse, ma qui sembra proprio essere così – è lo stesso.

Nan Goldin, Shroud, 2013, Scopofilia
Nan Goldin, Shroud, 2013

C’È MA NON SI VEDE. E RICHARD MOSSE LO FOTOGRAFA

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale
Sarà difficile cancellare dalla memoria le immagini viste al padiglione dell’Irlanda. Il fotografo Richard Mosse ha portato un filmato realizzato nel Nord Kivu, nella Repubblica democratica del Congo. Qui, dal 1988 sono morte quattro milioni di persone in una guerra dimenticata. Nel suo tentativo di reinventare la fotografia di guerra, Mosse aveva iniziato nel 2009 a scattare immagini con la pellicola a infrarossi. Sul rullino si imprime lo spettro di luce non visibile all’occhio umano. Le foto mostrano, cioè, quel che c’è ma non si vede: una metafora non solo della guerra dimenticata, ma anche un tentativo di mostrare ciò che ci sfugge di quel che guardiamo. Le immagini, poi diventate anche un filmato, sono di una bellezza tragica: il verde della foresta rigogliosa diventa di un magenta-rosa profondissimo.

In questa intervista Mosse spiega bene quel che voleva fare.

CAMILLE HENROT SPIEGA (MOLTO BENE) LA BIENNALE DI GIONI

Camille Henrot, Grosse Fatigue, biennale venice venezia

Camille Henrot, Grosse Fatigue, biennale venice venezia

Camille Henrot, Grosse Fatigue, biennale venice venezia

In the begining there was nothing but shadow
Only darkness, and water and the great god Bumba
In the begining there were quantum fluxuations
In the begining the univers was a black egg
Wherever in earth was mixed together
In the begining there was an explosion
(Camille Henrot, da Grosse Fatigue, 2013)

Camille Henrot ha vinto il Leone d’argento come miglior giovane artista. Molto bello il suo video (un video anche lei, sì, i pittori per entrare nel padiglione di Gioni dovevano essere matti, morti o quasi morti – esagero?). Nel post precedente ho detto che la sua opera non è all’altezza di quella di Artur Żmijewski, ma questo non vuol dire che Grosse Fatigue non sia tra le cose più interessanti viste in Laguna quest’anno. Dal desktop del suo computer la Henrot comincia un viaggio di immagini e cortocircuiti coinvolgente. Il tema di partenza è l’inizio del mondo, la genesi di tutto, poi si approda ai tentativi di catalogazione di quel che la genesi ha prodotto.

È un’opera-simbolo di questa Biennale. Non a caso nel video qui sotto a un certo punto è lei a dare una delle definizioni più azzeccate del senso del Palazzo enciclopedico messo in piedi da Massimiliano Gioni:

«Penso che questa Biennale rispecchi perfettamente questo aspetto: la dimensione della follia, della saturazione e dell’eccesso, dove il problema non è più l’estetica, ma contenere tutto»

IL LEONE D’ORO SECONDO NONAME VA A ARTUR ŻMIJEWSKI

Il Leone d’Oro per il miglior artista della Biennale è andato a Tino Sehgal. Lui non vuole assolutamente che si riproducano in alcun modo le sue performance, ma io me ne sono fregato e ve ne offro dei frammenti.

Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale
Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale
Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale

Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale

Per quanto mi riguarda il premio l’avrei dato a Artur Żmijewski. Il suo video Blindly mi è parsa l’opera più bella di tutta la Biennale di Massimiliano Gioni. Meno divertente del video di Camille Henrot – giovane Leone d’argento – è vero, meno spettacolare, è vero, meno… Sì, ma molto più un sacco di altre cose. In pochi minuti Żmijewski riesce a portarci dove pochissimi artisti scelti da Gioni riescono a portarci. Il video mostra alcuni adulti ciechi a cui l’artista ha chiesto di dipingere il proprio ritratto e un paesaggio. Vengono mostrate le varie fasi del lavoro dei protagonisti e possiamo sentire la voce. L’artista stesso decide di comparire nel video, in un gesto di grande coinvolgimento umano. Sullo schermo appaiono uomini alle prese con una sfida vertiginosa. La loro umanità emerge con forza. Il mistero della visione appare in tutta la sua insondabile profondità. A un certo punto un uomo dice: «Devo dipingere il sole? Qui scelgo il pennello, le dita non vanno bene. Dicono che i raggi del sole sono fili sottili, le tracce delle dita sarebbero troppo spesse». La bellezza del video è anche formale. Quella mano impiastrata di colori che si vede verso la fine è una delle immagini indimenticabili di questa Biennale.

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice
Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice
Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

IL MIO INCUBO VENEZIANO AL PALAZZO DI GIONI (AI GIARDINI)

Un paio di giorni a Venezia per dare un’occhiata alla Biennale. Stanotte dormirò male. Farò certamente un incubo. NO NOME è in grado in anticiparlo e presentarvelo per immagini. Un po’ come faceva Gustav Jung nel suo Libro rosso.

Viviane Sassen (1972), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Viviane Sassen (1972)
José Antonio Suaéz Londoño (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
José Antonio Suaéz Londoño (1955)
Eva Kotátková (1982), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Eva Kotátková (1982)
Shinro Ohtake (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Shinro Ohtake (1955)
Viviane Sassen (1972), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Viviane Sassen (1972)
Shinro Ohtake (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Shinro Ohtake (1955)
Viviane Sassen (1972), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Viviane Sassen (1972)
Maria Lassnig (1919), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Maria Lassnig (1919)
Jean-Frédéric Schnyder (1945), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Jean-Frédéric Schnyder (1945)
Jean-Frédéric Schnyder (1945), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Jean-Frédéric Schnyder (1945)
Dominico Gnoli (1933-1970), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Dominico Gnoli (1933-1970)
Evgenij Kozlov (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Evgenij Kozlov (1955)
Nokolay Bakharev (1946), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Nokolay Bakharev (1946)
Eva Kotátková (1982), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Eva Kotátková (1982)
Rudolf Steiner (1861-1925), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Rudolf Steiner (1861-1925)
Jean-Frédéric Schnyder (1945), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Jean-Frédéric Schnyder (1945)

Thierry De Cordier (1954), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Thierry De Cordier (1954)

I QUADRI “ROSSO POMPEI” DI GIANRICCARDO PICCOLII QUADRI “ROSSO POMPEI” DI GIANRICCARDO PICCOLI

Qualche giorno fa sono stato con Giuseppe nello studio del pittore bergamasco Gianriccardo Piccoli. Ci ha mostrato alcune sue nuove opere. Innanzitutto il ciclo dedicato al Libro di spese diverse di Lorenzo Lotto, il libro in cui il pittore negli ultimi anni di Loreto annotava la contabilità. È un libro che rende molto l’idea della personalità del grande artista a cui Piccoli ha voluto rendere omaggio con alcune tele nelle quali ha inserito piccoli oggetti citati nel libro (qui un esempio).

Ma la cosa più bella che Piccoli ci ha mostrato sono stati alcuni nuovi quadri rossi. «Rosso pompei», ci ha detto. Sono opere molto eleganti, l’eleganza  è una delle cifre del pittore bergamasco, ma hanno un’energia e una vitalità come nuova. Sono immagini – come sempre – “a due strati”, uno realizzato su una tela per abbigliamento e dipinto sul retro e uno su una garza semitrasparente che “copre” il primo. Le l’immagine dunque assume una profondità e una complessità enigmatica. A volte sull’immagine posteriore appaiono oggetti o brani di paesaggi (Piccoli li definisce «memorie di oggetti» o «memorie di paesaggio» – e l’effetto della garza è proprio quella di rendere “ricordo” quel che nasconde). A volete gli oggetti sono piccole sculture in fil di ferro o oggetti reali, come una rosa gialla, bellissima.

Gianriccardo Piccoli

Gianriccardo Piccoli

Gianriccardo Piccoli

Gianriccardo Piccoli

LUIGI GHIRRI, IL LIBRO (DI SAGGI) CHE NESSUNO RIPUBBLICA

Luigi Ghirri, niente di antico sotto il sole

«La mia idea della fotografia, come inesauribile possibilità di espressione, ha cercato nella realtà dei mondi e dei modi di rappresentarli… La fotografia, al di là di tutte le spiegazioni critiche e intellettuali, al di là di tutti gli aspetti negativi che pure possiede, penso che sia un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi»
(Luigi Ghirri, da intervista per Les Cahiers de la Photographie)

Nel 1997 la SEI ha pubblicato Niente di antico sotto il sole – Saggi e immagini per un’autobiografia uno spesso libro di saggi e interviste di Luigi Ghirri. Un libro fondamentale per comprendere quello che oggi è considerato il più importante fotografo italiano degli ultimi quarant’anni (Luca Beatrice ha descritto bene la sua riscoperta degli ultimi anni). A scorrere l’indice c’è davvero di che ingolosirsi. Cito solo qualche titolo della sessantina di saggi: Diaframma 11, 1/125, luce naturale (1970-1979); “∞” Infinito (1974); Re Mida nel vicolo cieco; Mondi senza fine. Su William Eggleston; Paesaggi senza cornice oltre la Casa Gialla; Le carezze fatte al mondo di Walker Evans; Sulla strada, dylaniati; Da Contarina a Prince; Casa, ponte, cancello… 

Qui la prima pagina del’indice e qui la seconda.

Trascrivo qui un brano dell’introduzione:

«Questo è per Ghirri, a partire da Daguerre, il compito della visione attraverso l’obbiettivo: ” ridare vita mediante la luce al mondo inanimato” e “dare al nostro sguardo sul mondo un altro sguardo successivo, per non dimenticarlo, per capirlo o, forse, solo per la gioia di rivederlo”. Scrittura della luce sono quindi davvero la fotografia e la sua storia, e al bianco assoluto di una luce lancinante eppure piena di consolazione, si aprono gli interni e i paesaggi diafani dell’ultimo periodo. Venerdì 14 febbraio 1992 Ghirri avrebbe dovuto prendere una decisione definitiva riguardo al libro della vita, un libro più volte ipotizzato e poi sempre decostruito per l’evidente impossibilità di contenere in un solo volume la complessità e la vastità del lavoro compiuto. La morte improvvisa giunta quel mattino, finzione suprema della realtà dell’apparire, non ha interrotto la sua opera, l’ha solo compiuta nella propria verità di opera aperta alla luce della Luce che, oltre la soglia dell’orizzonte, segna il nuovo inizio della realtà senza fine».

Vi consiglio di leggerlo. Ma c’è un unico problema: è introvabile. Strano, no? Possibile che a nessuno interessi ripubblicare un libro del genere?

I COLORI DELLA POVERTÀ. LAWRENCE CARROLL SECONDO PANZA

Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008
Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008

 

Uno degli artisti che probabilmente (chissà, vediamo, sapremo il 14 maggio) sarà presente al Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia 2013 è Lawrence Carroll (Melbourne, 1954). Fu una delle passioni del conte Giuseppe Panza e alcune sue opere si possono vedere nella villa di Varese. Di lui Panza parla in Ricordi di un collezionista. Le parole del conte sulle intenzioni e i risultati di questo artista sono davvero uno dei punti più belli di tutto il libro. Eccone qualche stralcio.

 

«Il suo obiettivo è il condividere la vita dell’uomo e dell’umanità, e le sue sofferenze. L’individuo perso tra la folla della metropoli. La tristezza e la solitudine. Il bisogno di amore. L’esistenza delle persone rifiutate dalla società, che non hanno la forza per competere con gli altri per sopravvivere. (…)

Molti non hanno colpa del loro destino, della loro miseria. Anche per chi ha colpe, di chi sono le vere colpe? Non vi è giustizia che può sanare queste sofferenze, sono nascoste dentro l’imprevedibile destino di ognuno. Dove è una possibilità di salvezza? Lawrence Carroll non è un fotografo, non descrive la realtà che i nostri occhi vedono. La rappresenta in un modo che è più sostanziale, arriva all’essenza della realtà, dove nascono il bene e il male. Il piacere e il soffrire. Esplora il mondo invisibile della coscienza, l’attimo insostituibile e irripetibile dell’esistere. La metafora di quello che vediamo, prima che il reale diventi reale.

I colori, bianchi, grigi, gialli, più o meno scuri ma prevalentemente chiari, sono macchie, superfici dipinti su tela attaccata a un supporto di legno, di una cassa trovata per strada adattata a diventare un quadro con tre dimensioni. I colori e le forme della povertà.

È un’arte che si deve guardare con attenzione per scoprire una raffinata bellezza, nascosta tra colori smunti, senza rilievo, pallidi e tristi. Quando la si scopre, si prova una profonda emozione; la bellezza nascosta, non evidente, senza aggressività, è la bellezza che ha radici, che rientra nel nostro essere. Ci comunica una realtà sotterranea che è la condizione primordiale del nostro esistere. Ci mette in relazione con gli altri, con l’umanità, con tutti quelli che non vediamo, ma che vivono.  (…)

Carroll ha un forte interesse per un famoso pittore italiano, Giorgio Morandi, poco apprezzato in America, un artista che ha speso tutta la sua vita, dagli anni ’20 fino agli anni ’50, dipingendo una sola cosa: bottiglie. Un soggetto quanto mai modesto, insignificante. Ciononostante è stato un grande pittore. Condivido l’interesse di Carroll. Non vi sono eroi, o tristezze opprimenti, solo immagini domestiche della vita quotidiana. Credo che per questo mi coinvolga così tanto. Non interessano i grandi drammi, ma la vita della moltitudine che scompare senza lasciare traccia, ma vive. (…)

Le opere di Carroll esprimono intensamente ed efficacemente la realtà del dolore perché la sublimano con una rappresentazione metaforica di una realtà che diversamente sarebbe aggressiva e lacerante, troppo violenta per essere rappresentata. Oggi questo compito spetta ai fotografi della cronaca giornalistica o della televisione, che è generosa nell’informare su tante cose che sarebbe meglio non vedere. I soggetti di Carroll non sono gli episodi violenti: è la vita triste di chi non riesce a vivere come gli altri per tante ragioni, vizi, malattie mentali, disfunzioni del carattere, debolezza fisica. Spesso situazioni di povertà per l’improvvisa perdita del reddito e la difficoltà di rifarsi una vita. La miseria ha colori e forme apparentemente disordinate che l’artista utilizza e l’arte fonde in un’armonia nuova che stupisce per la sua bellezza. Stupisce chi è ancora capace di spogliarsi dei propri pregiudizi». 

(Giuseppe Panza, Memorie di un collezionista, Jaca Book, 2006)

Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008
Lawrence Carroll, mostra al Museo Correr, Venezia, 2008

QUANDO RICHTER DISTRUSSE IL SUO RITRATTO DI HITLER

Gerhard Richter, Köln - Courtesy Gerhard- Richter-Archiv Dresden
Gerhard Richter, Köln - Courtesy Gerhard- Richter-Archiv Dresden

Nel suo catalogo generale si dice che siano circa 60. Sono le opere che Gerhard Richter ha deciso di distruggere e delle quali si ha un qualche tipo di documentazione. Molte sono degli anni Sessanta, quando da artista semisconosciuto proponeva nelle gallerie tedesche i suoi Foto-Bilder. Come capita ai pittori, non soddisfatto del risultato, prendeva un taglierino e distruggeva la tela. A volte le opere venivano bruciate con altro materiale di scarto. Ma dagli archivi sono emerse una serie di immagini di questi quadri e una in particolare, il ritratto di Hitler (ne parlava qualche mese fa lo Spiegel). Ora, che il nazismo sia uno dei grandi temi dei Foto-Bilder degli anni Sessanta non è un mistero. Richter ritrae lo zio in uniforme della Wehrmacht e fa il ritratto della zia uccisa dal programma nazista di eutanasia per i malati mentali. È forse il primo artista a rompere il tabù che in quegli anni copriva il ricordo dei recenti fatti storici. Mostra come in una normale famiglia tedesca potesse esserci la vittima e il carnefice. Quella di Richter è una poetica anti-ideologica e anti retorica che segna tutta la sua carriera. Si capisce allora come sia possibile che nel 1962 gli sia venuta l’idea di ritrarre proprio lui, Adolf Hitler. Un’immagine che all’epoca deve essere apparsa fortissima, trasgressiva e provocatoria. Nessuno prima di lui aveva osato tanto. Eppure quell’immagine è andata perduta (meglio: l’archivio online usa l’espressione “Gilt als zerstört”, probabilmente distrutta). Perché? Oggi Richter a proposito di quel quadro dice che quel tema e quel ritratto gli apparivano troppo “spettacolari”. Era quindi un quadro non riuscito. Non riuscito perché troppo retorico, troppo massimalista. Troppo retorico, appunto. Sul tema non tornò più anche se anni dopo il volto del Furher si fa spazio nella sua immaginazione, come testimoniano i fogli 131 e 132 del suo Atlas.

Gerhard Richter, Atlas 131, 1969
Gerhard Richter, Atlas 131, 1969
Gerhard Richter, Atlas 132, 1969
Gerhard Richter, Atlas 132, 1969