PERCHÉ SUSAN PHILIPSZ A SAN GOTTARDO IN CORTE A MILANO?

Susan Philipsz

Quando qualche mese fa è stata annunciata la mostra di Susan Philipsz a Milano in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie con Benedetto XVI, ho pensato subito che si trattava di un’ottima idea. La sua opera “Lowlands” alla Tate Britain in occasione del Turner Prize del 2010 mi conquistò subito. Penso sia un’artista seria. Peccato che le sue istallazioni sonore non siano riproducibili neanche con i video. La Philipsz, infatti, registra sezioni sonore indipendenti, che poi vengono riprodotte contemporaneamente da distinti altoparlanti piazzati in diversi punti dello spazio creando un effetto 3D.

Penso sia un’artista seria. In lei trovo interessante l’uso della voce umana, il rapporto con la tradizione e il senso dello spazio.

A Milano porterà tre opere: “Weep O Mine Eyes”, “Susan Barbara Joan and Sarah” e “Close To Me” che saranno istallate a Palazzo Reale e a San Gottardo in Corte.

Una di queste rielabora il madrigale “Weep O Mine Eyes” scritto da John Bennett nel 1599. Eccolo nella versione originale.

Questo il testo con una mia goffa traduzione:

Weep, o mine eyes and cease not,
alas, these your spring tides me thinks increase not.
O when begin you to swell so high
that I may drown me in you?

Piangete, occhi miei, non fermatevi,
Ahimè, sembra che queste maree non aumentino.
Oh, quando inizierete a innalzarvi tanto
che possa io possa annegare in voi?

TWO WEEKS ONE SUMMER. DAMIEN HIRST INCIAMPA SUI PENNELLITWO WEEKS ONE SUMMER. DAMIEN HIRST STUMBLES ON BRUSHES

Damien Hirs, Love Birds in Darkness, 2010,  101.6 x 76.2 cm, Oil on canvas
Damien Hirs, Love Birds in Darkness, 2010, 101.6 x 76.2 cm, Oil on canvas

A NO NAME piace molto Damien Hirst. Qualcuno se ne sarà accorto. È una specie di venerazione, lo ammetto. Non acritica, però. Come i veri amanti, sono molto esigente. E certe cose è meglio non lasciarle passare senza dire niente.

Dopo aver visto la bellissima mostra in corso alla Tate Modern stavo per scrivere che Hirst, decidendo di non esporre neanche un quadro della serie realizzata con le sue mani, aveva in qualche modo dichiarato che quella con i quadri “à la Bacon” era una strada ormai abbandonata. Non l’ho scritto. Per fortuna. A smentire questo mio wishfull thinking è la mostra “Two Weeks One Summer” in corso nella sede di White Cube a Bermondsey Street. La mostra non l’ho vista, ma mi ricordo che già nel 2009, con “No Love Lost – Blue Paintings” alla Wallace Collection, si alzò un coro di disapprovazione. Andai a vederla e non mi dispiacque poi molto. Azzardai un commento quasi positivo. Quello non era neanche il primo tentativo. Nei mesi precedenti, infatti, Hirst aveva esposto quadri a Kiev al Pinchuk Art Centre nella mostra “Requiem”.

Ma a guardare su internet i quadri esposti nella super galleria di Jay Jopling, c’è da rimanere parecchio perplessi. A confermare l’impressione la spietata recensione che Jonathan Jones ha fatto sul Guardian. Eccone qualche passaggio:

(…) Scherzi a parte, signor Hirst, sto parlando con lei. Sembra che non abbia nessuno intorno a lei che le dica: ora basta. Lasci perdere. Le dico questo non da nemico, ma da ammiratore di lunga data. Nessun incontro con un’opera d’arte contemporanea mi ha mai emozionato come la volta che entrai, nel 1992, alla Saatchi Gallery e vidi uno squalo tigre farmi le boccacce. Ma questi dipinti sono un sacrilegio per l’arte. Ognuno di questi dipinti – dal pappagallo in gabbia fino ai fiori e alle farfalle – fa a pugni la pittura figurativa e non riesce ad avvicinarsi, non solo alla maestria, ma alla competenza minima.

(…) Se Hirst non avesse cercato di dipingere un arancio con precisione, nessuno avrebbe saputo che non lo sa fare. Ma lui ci ha provato, almeno io penso che sia un arancio, e la misera sfera sembra fluttuare a mezz’aria a causa del goffo cerchio di ombra che le sta sotto. Per un momento ho pensato che fosse intenzionale, poi ho capito che era un problema di competenza. Questi problemi abbondano. Guardi un ramo e capisci subito che ci ha lavorato su, ma è anche ovvio che è lavoro sprecato. Al loro meglio questi quadri non valgono quelli delle migliaia di artisti della domenica che dipingono in giro per la Gran Bretagna. La differenza è che lui può permettersi degli stupidi che lo paragonino a Caravaggio (il riferimento è al saggio in catalogo, ndr).

Questa mostra è un avvertimento ai giovani artisti. A 18 anni, si può diventare come Damien Hirst, quando ne aveva 30. Ma superati i 40 anni, Hirst vuole a quanto pare essere l’artista che sarebbe potuto essere, chissà, se avesse trascorso la sua giovinezza a disegnare. Ha iniziato troppo tardi. Ora sembra un tiranno perso in un mondo di specchi, come il bambino più sopravvalutato del mondo, come un disonore per la sua, la mia, generazione. Siamo questo fallimento?

Io non so se sarei stato così severo. Forse no. Eppure c’è una cosa che mi rende simpatico Hirst anche in questa caduta plateale. E cioè che avrebbe potuto non farlo. Avrebbe potuto continuare con le solite cose che ormai ripete da dieci anni. E invece ci ha provato e si è rimesso in gioco. E ha fallito. Alla grande. Anche solo per questo andrebbe stimato.

Damien Hirst Butterflies and Blossom 2010
Butterflies and Blossom, 2010

Damien Hirst The Sorrow (with Magpie) 2008-2010
The Sorrow (with Magpie), 2008-2010

Damien Hirst Parrot with Outstreched Wings 2010-2012
Parrot with Outstreched Wings, 2010-2012

Damien Hirst Brown Jug of Water with Scissors 2010
Brown Jug of Water with Scissors, 2010

Damien Hirs, Love Birds in Darkness, 2010,  101.6 x 76.2 cm, Oil on canvas
Damien Hirs, Love Birds in Darkness, 2010, 101.6 x 76.2 cm, Oil on canvas

NO NAME really likes Damien Hirst. Someone would have noticed. It’s a kind of veneration, I admit. Not uncritical, however. How true lovers, I am very picky. Ad it is better to say certain things

After seeing the beautiful exhibition at the Tate Modern, I was going to write that Hirst, deciding not to expose even a picture of the series made with his hands, had somehow said that the pictures “a la Bacon” was a road now abandoned. I did not write it. Fortunately. To refute this wishfull thinking is the exhibition “Two Weeks One Summer” in progress at White Cube in Bermondsey Street. I have not seen the show, but I remember that back in 2009 with “No Love Lost – Blue Paintings” at the Wallace Collection, a chorus of disapproval rose. I went to see it and I did not mind much. I ventured a comment almost positive. That he was not the first attempt. In the months before, in fact, Hirst had exhibited paintings at the Pinchuk Art Centre in Kiev in the exhibition “Requiem”.

But it is quite perplexing seeing online the canvas exhibited in the Jay Jopling’s super gallery. Jonathan Jones confirms the impression with his harsh review in The Guardian. Here are some steps:

(…) Seriously – Mr Hirst – I am talking to you. It seems you have no one around you to say this: stop, now. Shut up the shed. I say this as a longtime admirer, not an enemy. No encounter with a contemporary work of art has ever thrilled me like the day I walked into the Saatchi Gallery in 1992 and saw a tiger shark’s maw lurch towards me. But these paintings are abominations unto the lord of Art. They dismantle themselves. Each of these paintings – from the parrot in a cage to the blossoms and butterflies – takes on the difficulties of representational painting and visibly fails to come close, not merely to mastery, but to basic competence.

If Hirst did not try to paint an orange accurately, no one would know he can’t do it. But he has tried, at least I think it’s an orange, and the poor sphere seems to float in mid air because of the clumsy circle of shadow below it. For a moment I thought this was intentional, then I realised it was a competence issue. Such issues abound. You look at a branch and it is obvious he has worked at it: equally obvious the work was wasted. At their very best these paintings lack the skill of thousands of amateur artists who paint at weekends all over Britain – and yet he can hire fools to compare him with Caravaggio.

This exhibition is a warning to young artists. At 18, you may long to be Damien Hirst when he was 30. But in his 40s, Hirst apparently wishes he was the artist that, who knows, he might have been, had he spent his youth drawing day after day after day. He has left it too late. Instead he looks like a tyrant lost in a world of mirrors, like the world’s most overpraised child, like a disgrace to his, my, generation. Are we this bankrupt?

I do not know if I would be so severe. Maybe not. Yet there is one thing that makes me sympathetic Hirst also in this fall: he could not do it. He could have continued with the usual things now repeated for ten years. But he tried it. And he has failed. Completely. Even for this should be estimated.

Damien Hirst Butterflies and Blossom 2010
Butterflies and Blossom, 2010

Damien Hirst The Sorrow (with Magpie) 2008-2010
The Sorrow (with Magpie), 2008-2010

Damien Hirst Parrot with Outstreched Wings 2010-2012
Parrot with Outstreched Wings, 2010-2012

Damien Hirst Brown Jug of Water with Scissors 2010
Brown Jug of Water with Scissors, 2010

TUTTI GLI SQUALI DEL SIGNOR DAMIEN HIRST (UN CENSIMENTO)HOW MANY SHARKS, MR. HIRST? (A CENSUS)

Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991
Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991

Sono stato alla mostra di Damien Hirst alla Tate Modern di Londra. È una mostra all’altezza sia della Tate sia di Hirst. Se potete, non perdetevela. L’opera più bella è anche la più famosa: The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (d’ora in poi per brevità TPIODITMOSL).

Di quest’opera Hirst ha parlato molte volte (l’ultima qui), ma una volta ha  spiegato: “Mi piace l’idea di qualcosa che descrive una sensazione. Uno squalo fa paura, è più grande di te, si muove in un ambiente a te sconosciuto. Sembra vivo quando è morto e morto quando è vivo”.

Nella mostra di Londra, però, gli squali esposti sono due. Il primo è, appunto, TPIODITMOSL. L’altro, più piccolo e in una teca nera, si intitola The Kingdom.

Per molti TPIODITMOSL è diventato il simbolo della follia dell’arte contemporanea, tanto che nel 2008 l’economista Donald Thompson ha scritto un libro tradotto in italiano col titolo Lo squalo da 12 milioni di dollari – La bizzarra e sorprendente economia dell’arte contemporanea. Thomson racconta per filo e per segno la genesi di TPIODITMOSL e rivela una serie di particolari abbastanza interessanti.

L’opera fu realizzata per la prima volta nel 1991 con i soldi di Charles Saatchi. “L’artista – racconta Thompson – aveva fatto alcune telefonate “Cercasi squalo” ad alcuni uffici postali australiani in località costiere, i quali avevano appeso dei cartelli con il suo numero di Londra”. A rispondere all’annuncio fu Vic Hislop, un pescatore di Hervey Bay, una località sull’Oceano Pacifico. Lo squalo fu pagato 6000 dollari: 4000 per la cattura e 2000 per imballarlo nel ghiaccio e spedirlo a Londra via nave.

vic hislop, shark for damien hirst
Vic Hislop alle prese con uno squalo nel 1992.

TPIODITMOSL fu esposta per la prima volta nel 1992 nella galleria privata di Saatchi. Quando però nel 2005, tramite i buoni uffici di Larry Gagosian, Saatchi vendette l’opera al finanziere americano Steve Cohen (si dice per 12 milioni di dollari), lo squalo si era completamente deteriorato. Hirst accettò si sostituire l’animale e chiamò di nuovo Vic Hirslop. Gli chiese altri tre squali tigre e un grande squalo bianco della stessa stazza e ferocia dell’originale. Hirslop, racconta Thompson, inviò a Hirst cinque squali, uno dei quali in regalo. (Qui l’articolo del Nyt che racconta la sostituzione di squalo)

Che fine hanno fatto gli altri quattro squali? In realtà io ne ho censiti almeno cinque. Eccoli:

The Immortal (1997-2005)

Damien Hirst, The Immortal (1997-2005)

The Wrath of God (2006)

Damien Hirst, The Wrath of God (2006)

Death Explained (2007)

Damien Hirst, Death Explained (2007)

Death Denied (2008)

Damien Hirst, Death Denied (2008)

The Kingdom (2008)

Damien Hirst, The Kingdom (2008)

Che io sappia poi, esiste almeno un’opera realizzata anziché con uno squalo, con un pesce-martello:

Fear of Flying (2008-2009)

Damien Hirst, Fear of Flying (2008-2009) Damien Hirst, Fear of Flying (2008-2009)

Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991
Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991

I’ve been to Damien Hirst’s exhibition at the Tate Modern in London.  It is a show worthy of the Tate and Hirst. The most amazing work is the most famous one: The Physical Impossibility of Death in the Mind of SomeoneLiving (hereafter for brevity TPIODITMOSL).

Hirst spoke about this work many times (the last one here), but once explained: “I like the idea of something describing a feeling. A shark is scary, it’s bigger than you, it moves in a environment unknown to you. It seems alive when it is dead, and dead when it is alive”.

In the London show, however, the sharks on display are two. The first is, in fact, TPIODITMOSL. The other, smaller and in a black vitrine, called The Kingdom.

For many TPIODITMOSL has become the symbol of the folly of contemporary art, so much so that in 2008 the economist Donald Thompson wrote the book The $12 Million Stuffed Shark. Thomson explains the genesis of TPIODITMOSL and reveals a number of quite interesting details.

The work was realised for the first time in 1991 with Charles Saatchi’s money. “The artist – writes Thompson – had made ​​some phone calls “Wanted shark”at some post offices in the Australian coastal towns, which had hung signs with his number in London”. The man who called Hirst was Vic Hislop, a fisherman from Hervey Bay, a resort on the Pacific Ocean. The shark was paid $6000: $4000 for the capture and $2000 for packing it in ice and shiping it to London by ship

vic hislop, shark for damien hirst
Vic Hislop whit a shark in 1992.

TPIODITMOSL was shown for the first time in 1992 in Saatchi’s private gallery. But when in 2005, through the good offices of Larry Gagosian, Saatchi sold the work to the American financier Steve Cohen (they say: 12 million dollars), the shark had completely deteriorated. Hirst accepted to replace the animal and called again Hirslop Vic. He asked three other tiger sharks and great white shark of the same size and ferocity of the original. Hirslop, says Thompson, sent five sharks, one of them as gifts. (Here the article in the NYT with the story of the replacement of the shark).

What happened to the four other sharks? I actually counted at least five. Here they are:

The Immortal (1997-2005)

Damien Hirst, The Immortal (1997-2005)

The Wrath of God (2006)

Damien Hirst, The Wrath of God (2006)

Death Explained (2007)

Damien Hirst, Death Explained (2007)

Death Denied (2008)

Damien Hirst, Death Denied (2008)

The Kingdom (2008)

Damien Hirst, The Kingdom (2008)

Then as I know, there is at least a work created instead wiht a shark, whit a fish-hammer:

Fear of Flying (2008-2009)

Damien Hirst, Fear of Flying (2008-2009) Damien Hirst, Fear of Flying (2008-2009)

BUONA PASQUA (ASPETTANDO BRAMANTINO A MILANO)

Bramantino, Cristo risorto, 1490 circa, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid
Bramantino, Cristo risorto, 1490 circa, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid

“Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi”.

Benedetto XVI, omelia della Veglia pasquale, 7 aprile 2012

Qui l’intervista a Giovanni Agosti con qualche anticipazione sulla mostra su Bramantino a Milano che aprirà a maggio al Castello Sforzesco.

L’OMBRA DEL RIGORE. SGARBI FA CONFUSIONE SULL’ARTE SACRA

Oleg Supereco cupola noto
Oleg Supereco, affreschi della cupola della Cattedrale di Noto, particolare, 2010

Ho letto il libro di Vittorio Sgarbi L’ombra del divino nell’arte contemporanea (2011, Cantagalli). È un libro per certi versi interessante. Non privo di spunti. Ha alcune pagine molto belle. Tuttavia lo sconsiglio vivamente a chi volesse chiarirsi le idee sull’arte sacra contemporanea. Il saggio di Sgarbi nasce presentazione dell’esperienza di ricostruzione della cattedrale di Noto. Il critico cerca di contestualizzare il problema (che è un grosso problema aperto) del rapporto tra Chiesa e arte contemporanea o, se volete, tra arte contemporanea e sacro (due problemi diversi, ma nel libro non si va troppo per il sottile).

Sgarbi segnala come esito più alto di arte sacra contemporanea la Rothko Chapel a Huston. Scrive Sgarbi: “Il trittico, collocato nello spazione geometrico di Renzo Piano, è il coronamento di un’idea consentanea di pura essenza tra pittore e architetto. Alla radice va detto che l’esperienza mistica implicita risiede nell’intuizione geometrica dello spazio, il cui risultato probabilmente persuaderebbe anche papa Ratzinger, in quanto quel blocco di cemento non umilia la dimensione sacra, ma nella sua spaziatura essenziale esalta l’idea di Dio”.

E poco dopo aggiunge un’affermazione molto forte: “Del resto, l’arte sacra in senso antropomorfico è finita. Non si può pensare che abbia una resistenza nella rappresentazione di immagini riconoscibili”.

Due osservazioni:

1) Sul fatto che la Rothko Chapel sia un capolavoro c’è poco da discutere. Ma l’affermazione di Sgarbi sarebbe stata più credibile se non l’avesse attribuita a Renzo Piano. Piano nel 1971 aveva 34 anni e non aveva firmato ancora nessun progetto. 

2) Se è vero che “l’arte sacra in senso antropomorfico è finita”, perché decidere di ricostruire la cattedrale di Noto tale e quale e decorarla con arte figurativa anacronistica (anacronistica è l’aggettivo usato da Sgarbi)?

Sgarbi introduce li concetto di “ombra del divino” per definire l’arte sacra contemporanea. “Nel contemporaneo – scrive Sgarbi – per chi quelle forme voglia riprodurre (le forte dell’arte rinascimentale, ndr), o ripercorrere, o mimare, l’esito è produrre un’ombra. L’ombra non vuol dire qualcosa che non ha la sua piena forma, bensì qualcosa in cui si percepisce ciò che è stato, sentendo che il prodotto creativo oggi realizzato non è una copia, ma è l’ombra di quella forma“. Un concetto interessante ma un po’ confuso, a dire il vero. Che fa a pugni con la sua esaltazione dell’arte astratta di Rothko.

Per chi volesse avvicinarsi a questo tema (e vuole provare la vertigine che esso produce in chi lo affronta in modo serio) consiglio il ben più rigoroso testo di Marie-Alain Couturier Un’avventura per l’arte sacra curato da Maria Antonietta Crippa per Jaca Book. Qui c’è un brano pubblicato recentemente da Avvenire, che potrebbe essere preso come manifesto.

LUCIO DALLA NEGLI OCCHI DI LUIGI GHIRRILUCIO DALLA IN LUIGI GHIRRI’S EYES

Lucio Dalla Luigi Ghirri
Luigi Ghirri, New York, 1986

Lucio Dalla Luigi Ghirri
Luigi Ghirri, Lucio Dalla, 1987

Il modo di interpretare Dalla scelto da Ghirri, è agli antipodi da come si rappresenta di solito una Pop-Star (e da come Dalla ha scelto in seguito di rappresentarsi). Non c’è nulla di tronfio, di caricato, di eccessivo nelle foto di Ghirri. Niente sottolinea il “successo”, il “potere”, la “grandezza artistica”. Tutto è ironia lieve, tra sorriso e malinconia, sintesi felice, momento colto al volo, come nelle migliori canzoni di Dalla. Un modo di far trasparire oltre il personaggio, la musica. Il senso.

Gianfranco Manfredi in Luigi Ghirri – I luoghi della musica, Motta fotografia 1994

Lucio Dalla Luigi Ghirri
Luigi Ghirri, New York, 1986

Lucio Dalla Luigi Ghirri
Luigi Ghirri, Lucio Dalla, 1987

The way to interpret Lucio Dalla chose Ghirri, is the opposite from how it is usually aPop-Star (and later as John chose to represent himself). There is nothing pompous, heavy, in excess in Ghirri’s pictures. Nothing underlines the “success”,the “power”, the “artistic greatness”. Everything is slightly ironic, between smiles and sadness, happy synthesis, when caught on the fly, as in Dalla’s best songs. One way to shine over the character, the music. The meaning.

Gianfranco Manfredi in Luigi Ghirri – I luoghi della musica, Motta fotografia 1994

JANNIS KOUNELLIS ALLA PECHINESE RISUSCITA PORCELLANE JANNIS KOUNELLIS IN CHINA REVIVES PORCELLAIN

Mi è piaciuto molto questo brano dell’intervista di Stefano Malatesta a Janis Kounellis pubblicata domenica su Repubblica. Parla della genesi della mostra dell’anno scorso a Pechino. L’idea delle porcellane. E dei vestiti da bambina. Mi sembrano due idee forti. E molto collegate tra loro.

«E, come spesso mi è successo, all’ inizio non avevo la più pallida idea di quello che avrei fatto. L’ idea buona o il colpo di genio, insomma quello che fa distinguere immediatamente la cazzata dall’ opera riuscita, due momenti diversi ma estremamente vicini tra loro, tardava a venire». Kounellis, un carattere di solito molto controllato, ha cominciato ad agitarsi. Il suo desiderio di piacere, la sua determinazione a raggiungere il successo sono sempre stati molto grandi e un eventuale flop della mostra lo avrebbe portato alla depressione. «Poi, un giorno, in un mercato all’ aperto di Pechino ho notato piramidi di porcellane frantumate. Ce n’erano di bellissime, molto antiche. Con quella meravigliosa trasparenza così difficile da raggiungere. Io non riuscivo a capire le ragioni di tutti quei pezzi e a che cosa servissero. Poi un artista mio amico mi ha raccontato che durante il periodo maoista, al tempo della famigerata Banda dei Quattro, le guardie rosse entravano nelle case delle persone considerate borghesi e se trovavano delle porcellane le gettavano in terra finendole di fare a pezzi con i calci dei fucili in quanto simboli detestati della Cina dei Mandarini». Il giorno dopo Kounellis è andato al mercato e ha comprato tutte le porcellane su cui riusciva a mettere le mani, pagandole una cifra irrisoria. Poi le ha divise per forma, dimensione e colore e le ha attaccate una dietro l’ altra, come farebbe un collezionista di francobolli o di farfalle con estrema precisione, su lastre di ferro grandi quanto un letto a due piazze e pesanti quattrocento chili ciascuna. Infine ha allineato le lastre fino a formare una muraglia, la cui pianta disegna una greca sormontata da pezzi di carbone. Quando l’ artista nella sua casa di Roma ha tirato fuori le fotografie che riprendevano dall’ alto l’ installazione ho trattenuto per un attimo il respiro. Raramente avevo visto una simile, sorprendente fusione di due materiali così eterogenei come il ferro e la porcellana. Dopo pochi giorni da questa installazione ne ha fatto un’ altra per lui rivoluzionaria: «Nel passato ho sempre cercato di evitare i colori. Li ritenevo futili e controproducenti rispetto alla mia concezione dell’ arte come teatro dei drammi». Ma nei giorni in cui si trovava a Pechino è andato in giro a comprare vestiti da bambina coloratissimi che ha disteso sulle lastre. Un gesto di riconciliazione con il mondo dei colori che ha lasciato stupefatto Marino, abituato ai toni cupi senza speranza delle sue opere. L’accoglienza della mostra è stata spettacolare: «Credo che quello che ha attirato i visitatori siano state proprio le schegge, il modo con cui un artista occidentale ha valorizzato l’ importanza del prodotto più famoso della Cina. Per secoli gli europei hanno cercato di imitare, senza riuscirci, l’ impasto tenuto segreto che permetteva quei meravigliosi manufatti e ora arrivava in Cina un artista straniero che non tentava di copiare, ma che con le sue opere rendeva omaggio alle porcellane, anche se maltrattate dagli stessi cinesi».

“Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011 “Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011
“Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011 “Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011

I really enjoyed this part of the interview with Janis Kounellis published by Stefano Malatesta on Sunday. It speaks of the genesis of the exhibition in Beijing made ​​last year. The idea of porcelain. And the baby-girl clothes. I seem to be two strong ideas. And much linked together.

«And, as often happened to me, at the beginning I had no idea of what I would do. The good idea or a brainwave, in short, what does distinguish immediately a cock-up by successful work, two different moments but extremely close to each other, was late in coming». Kounellis, a character usually very controlled, began to fidget. His desire to please, his determination to succeed have always been very large and an eventual flop of the show would have led to depression. «Then, one day, in a market in Beijing I noticed pyramids of broken porcelain. There were beautiful, very old. With that wonderful transparency so hard to achieve. I could not understand why all those pieces and what they were. Then an artist friend of mine told me that during the Maoist period, at the time of the notorious Gang of Four, the Red Guards entered the homes of people considered middle class and if they found the casting of porcelain clay they shred with the butts of rifles as hated symbols of the Mandarins of China». The next day Kounellis went to the market and bought all the porcelain on which he could lay my hands, paying them a pittance. Then he divided the shape, size and color and has attached one behind the other, as would a collector of stamps or butterflies with extreme precision, of iron plates as big as a double bed and heavy four hundred pounds each. Finally the plates lined up to form a wall, which draws a Greek plant topped with pieces of coal. When the artist in his home in Rome has pulled out from the photographs that reflected the top installation, I held my breath for a moment. I had rarely seen such a surprising merger of two heterogeneous materials such as iron and porcelain. After a few days of this installation made it a revolutionary one for him: «In the past I always tried to avoid the colors. I felt futile and counterproductive to my conception of art as a theater of drama». But in the days when he was in Beijing has gone out to buy colorful girl clothes who spread out on plates. A gesture of reconciliation with the world of colors that left Marino stunned, accustomed to the dark tones with no hope of his works.

“Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011 “Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011
“Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011 “Translating China-Solo Exhibition of Jannis Kounellis”, beijing, 2011

PADIGLIONE DI RAVASI ALLA BIENNALE? ANCORA NEI PENSIERI DI DIOTHE RAVASI PAVILLION AT THE BIENNALE? THREE SCENARIOS

Gianfranco Ravasi, padiglione vaticano biennale di veneziaIl cardinal Gianfranco Ravasi ha annunciato la sua intenzione di portare un Padiglione della Città del Vaticano alla Biennale di Venezia ormai qualche anno fa. Previsto per l’edizione del 2011, fu posticipato a data da destinarsi. Forse nel 2013. Quando gli chiesi informazioni nell’autunno del 2010 mi rispose che non c’erano i tempi tecnici per arrivare pronti al 2011. Ma da come parlava sembrava che l’idea ci fosse, ma fosse difficile da realizzare. La vera verità è che, a febbraio 2012, non sembra esserci neppure l’idea. Per ora sembra che il cardinale abbia riunito nel dicembre scorso un ipotetico comitato scientifico che potrebbe occuparsi del progetto. Ne farebbero parte Sandro Barbagallo, critico d’arte dell’Osservatore Romano, Micol Forti, direttore della Collezione d’arte contemporanea dei Musei vaticani, Francesco Buranelli, già direttore dei Musei vaticani e oggi segretario della Pontificia Commissione per i Beni culturali e padre Davide Dall’Asta, direttore della Raccolta Lercaro di Bologna. Il comitato, trapela da voci nei corridoi vaticani, in teoria dovrebbe occuparsi di realizzare le direttive suggerite da Ravasi. Ma sembra che in questo momento direttive non ce ne siano. Il gruppo di lavoro si sarebbe dovuto incontrare di nuovo a gennaio. Ma ai quattro le convocazioni non sono arrivate. Allo stato delle cose, dunque, oltre alle dichiarazioni via stampa di Ravasi non sembra esserci nulla di concreto. E il Padiglione vaticano alla Biennale resta un miraggio.

 

E fin qui la cronaca. Ecco invece tre possibili scenari che mi pare potrebbero realizzarsi:

 

1) Versione clerical del padiglione Sgarbi

È già stata collaudata l’estate scorsa in occasione della mostra per il sessantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI. Una lista di un centinaio di artisti che alternava grandi nomi, illustri sconosciuti e personaggi al di sotto di qualsiasi sospetto. Ogni artista dona un’opera di sua scelta. Nessuna preoccupazione di organicità.

VANTAGGI: Facile da realizzare. Poco costosa. Accontenta gran parte del sottobosco artistico romano legato a cardinali e monsignori di curia. Poche polemiche in ambito cattolico.

SVANTAGGI: Basso profilo mediatico. Critiche degli esperti del settore.

 

2) Versione art chic del portico dei gentili

È l’idea paventata nell diverse interviste dallo stesso Ravasi che ne sarebbe il vero curatore. Nomi di respiro mondiale come Bill Viola, Anish Kapoor, Yanis Kounellis. Un bel tema ampio e biblico (il libro della Genesi). Libertà assoluta per gli artisti. Poche opere, ma di impatto.

VANTAGGI: Copertura mediatica globale. Plauso degli esperti del settore, dei collezionisti che contano e un servizio di sei pagine su Vogue. Poter dire che la Chiesa è tornata ad essere un interlocutore per l’arte che davvero conta.

SVANTAGGI: Difficile da realizzare (convincere gli artisti a partecipare). Costoso. Assicurata l’ondata di critiche del mondo cattolico. Necessità di un giubbotto antiproiettile per poter girare nei palazzi vaticani.

 

3)  Versione cur(i)atoriale

 

Scegliere un curatore vero ma cattolico. Affidargli l’incarico di selezionare un gruppo ristretto di artisti di primo piano (da uno a cinque, non necessariamente di grido) in grado di mettersi in gioco in un progetto in cui il curatore possa dire davvero la sua. Quindi libertà dell’artista e libertà del curatore/committente. Come modello potrebbe essere presa l’esperienza dell’Evangeliario ambrosiano.

 

VANTAGGI: Possibilità di dire che la Chiesa è tornata a fare committenza a alti livelli. Discreto impatto mediatico.

SVANTAGGI: Difficoltà nel reperire un curatore vero ma cattolico senza innescare faide. Critiche sia da parte cattolica che da parte degli esperti di settore. Discreto impatto mediatico.Gianfranco Ravasi, padiglione vaticano biennale di venezia

Cardinal Gianfranco Ravasi announced its intention to bring the Vatican Pavilion at the Venice Biennale a few years ago. Scheduled for the edition of 2011, it was postponed until a later date. Maybe in 2013. When I asked him (it was the fall of 2010) he said that there were no technical time to get ready in 2011. But as he spoke, it seemed that there was the idea, but it was difficult to achieve. The real truth is that, in February 2012, there seems to be not even the idea. For now it seems that last December the cardinal had gathered a hypothetical scientific committee that could deal with the project. It would be part Sandro Barbagallo, art critic of the Osservatore Romano, Micol Forti, director of contemporary art collection of the Vatican Museums, Francesco Buranelli, former director of the Vatican Museums, and now secretary of the Pontifical Commission for Cultural Heritage and father David Dall’Asta, Director of Collection Lercaro of Bologna. The committee, leaked by voices in the corridors of the Vatican, in theory should take care to make the guidelines recommended by Ravasi. But it seems that at this moment there are no directives. The working group would have to meet again in January. But the four summonses have not arrived. As things stand, therefore, in addition to Ravasi’s statements in the press, there would be nothing concrete. And the Vatican Pavilion at the Biennale remains a mirage.

 

In the cardinal’s mind, we hope, are taking shape three possible scenarios to achieve what will be known as the Ravasi Pavilion:

 

1) Clerical version of the Sgarbi pavilion

It has already been tested last summer on the occasion of the exhibition for the birthday of Benedict XVI. A list of a hundred artists who alternated big names, illustrious unknown, people under any suspicion. Each artist donates a work of his choice. No worries of organicity.

PROS:

Easy to achieve. Inexpensive. Satisfied much of the roman art undergrowth related to cardinals of the Curia and monsignors. Some controversy in Catholic circles.

CONS: Basso profilo mediatico. Critiche degli esperti di arte.

 

2) Art-chic version of the arcade of the Gentiles

It’s the idea announced in several interviews by the same Ravasi who would be the true curator. Names of worldwide importance such as Bill Viola, Anish Kapoor, Yanis Kounellis. A nice wide biblical theme (the book of Genesis). Total freedom for artists. Few works, but impact.

PROS:

Global media coverage. Praise of art experts, big collectors and six pages of Vogue. To say that the Church is once again a partner for great art.

CONS: Difficult to achieve (to convince the artists to participate). Expensive. Ensuredthe wave of criticism of the Catholic world. Need for a bulletproof vest to run in the Vatican.

 

3) Cur(i)atorial version

 

Choose a true curator but Catholic. Entrust the task of selecting a small group of leading artists (one to five, not necessarily ultra-cool) can get involved in a project in which the curator can really have a say. So artistic freedom and freedom of the curator. As a model could be taken the Evengeliario ambrosiano.

 

PROS: Opportunity to say that the Church is back to do commission in high levels. Poor media coverage.

CONS: Difficulty in finding a true curator but Catholic without triggering feuds. Criticism both from Catholics by art experts. Poor media coverage.

COSÌ IL CONTE PANZA PERSE LA TESTA PER ANTONI TÀPIESTHAT’S WHY COUNT PANZA FELL IN LOVE WITH ANTONI TÀPIES

Antoni Tàpies, Matèria en forma de peu, 1965, Mixed media on canvas,  130 x 162 cm.
Matèria en forma de peu, 1965, Mixed media on canvas, 130 x 162 cm.

È morto a Barcellona Antoni Tàpies. Aveva 89 anni. Di lui il conte Giuseppe Panza scrisse, nella sua autobiografia, queste righe meravigliose.

«Mai nella storia dell’umanità vi erano stati tanti morti in mezzo secolo (tra il 1914 e il 1945, ndr). La ragione, avendo perso la sudditanza a una legge superiore, poteva giustificare ogni delitto. Se gli intellettuali russi non erano consenzienti a una rigida obbedienza ideologica era giusto eliminarli, se la classe borghese non poteva essere collettivistica doveva essere distrutta, se gli ebrei non potevano essere dei sinceri nazionalisti dovevano essere bruciati in un forno. Quando non esiste più l’attesa di un altro mondo, e vi è solo questo mondo, il fine giustifica i mezzi ; se la felicità è solo in terra, deve essere realizzata a ogni costo.
Tàpies esprimeva la crisi, lo smarrimento di questo modo di pensare. Era più che mai intensa la necessità di uscire da questa spirale distruttiva per trovare altre certezze, altre speranze.
I suoi quadri avevano i colori del deserto, dove non vi è vita, di una terra aggrovigliata da convulsioni scomparse da tempo, con qualche raro segno di una remota presenza umana, come se i viventi avessero rinunciato a esistere nell’attesa di un’imminente apocalisse. L’attesa di qualcosa di straordinario, che doveva venire, forse terribile, forse la salvezza».

Giuseppe Panza, Ricordi di un collezionista, Jaka Book, 2006 (pp 58-59)

Antoni Tàpies, Matèria en forma de peu, 1965, Mixed media on canvas,  130 x 162 cm.
Matèria en forma de peu, 1965, Mixed media on canvas, 130 x 162 cm.

Antoni Tapies is dead today in Barcellona. He was 89. Count Giuseppe Panza wrote these beautiful lines on him:

«Never in human history there were many dead in half a century (between 1914 and 1945, ed). The Reason, having lost her subjection to a higher law, could justify every crime. If the Russian intelligentsia were not consenting to a rigid ideological obedience was right to remove it, if the middle class could not be collectivist had to be destroyed, if the Jews could not be of sincere nationalists were to be burned in a furnace. When there is no longer the expectation of another world, and there is only this world, the goal justifies the means, if happiness is on earth, must be made ​​at any cost.
Tàpies expressed the crisis, the loss of this way of thinking. It was more intense than ever the need to get out of this destructive spiral to find other certainties, other hopes.
His paintings had the colors of the desert, where there is no life, a land oftangled long gone by convulsions, with some rare sign of a remote human presence, as if they had given up living there while waiting for an imminent apocalypse. The expectation of something extraordinary, who was to come, perhaps terrible, even salvation».

Giuseppe Panza, Ricordi di un collezionista, Jaka Book, 2006 (pp 58-59)