ALBERTO GARUTTI, PERCHÉ È ARTE?

Questa intervista è stata pubblicata sul numero di ottobre di Tracce

Quattro chiacchiere con #albertogarutti #tenerevivoilfuoco #contemporaryart #milano

Una foto pubblicata da Luca Fiore (@lfiore) in data:

Alberto Garutti è uno dei protagonisti della mostra del Meeting di Rimini Tenere vivo il fuoco. Sorprese dell’arte contemporanea. Nasce a Galbiate, provincia di Lecco, nel 1948. Fino al 2013 è stato docente di Pittura all’Accademia di Brera, e continua a insegnare a Venezia e al Politecnico di Milano. Chi ha visto la mostra di Rimini ha conosciuto una delle sue opere più famose, Temporali, istallata al Maxxi di Roma nel 2009. Mille potenti lampade, collegate al Centro Sperimentale Italiano, che si accendevano ogni volta che sul territorio italiano cadeva un fulmine. Per spiegare l’opera Garutti ha utilizzato 450 mila copie del giornale freepress City, sulla cui copertina compariva la scritta: «In una sala del nuovo Maxxi le luci vibreranno quando in Italia un fulmine cadrà durante un temporale. Quest’opera è dedicata a tutti coloro che passando di lì penseranno al cielo». In tanti ne hanno colto la poesia. Moltissimi hanno fatto domande. Siamo andati a rivolgergliele direttamente.

A Rimini chiedevano: «Perché questa opera di Garutti è arte?».
Io non so rispondere a questa domanda… Quell’opera parla del cielo, di quel grande enigma sospeso sulle nostre teste… Lo stesso enigma che ha a che fare con l’arte. Che cosa è veramente? Ogni volta che mi trovo davanti alla linea dell’orizzonte si presenta questa domanda. Mi torna spesso in mente Borges: l’universo è inconcepibile.

Perché?
Ciò che più conta nell’arte è la misteriosità dell’evento visivo. Ho insegnato a lungo e, come tutti i docenti, so che l’arte non si può insegnare. È possibile insegnare a suonare il pianoforte, ma non a diventare Mozart, esattamente come si può insegnare a scrivere, ma non ad essere Borges. L’arte è un grande enigma.

Se non possiamo dire cos’è, sappiamo almeno da dove nasce?
L’arte è il tentativo di andare oltre una soglia, nasce dal rapporto con un limite. Esplora nuove sensibilità e scenari diversi, è una straordinaria esperienza conoscitiva. Io penso che abbia in sé anche una tensione che è in relazione con degli eventi biologici, come la volontà di proseguire la propria specie. Non sono un filosofo, ma l’uomo dà molti nomi ad un’esigenza profonda che ha a che fare con il desiderio di generare. E questo, se ci si pensa, è un altro mistero.

Lei dice che la verità di un’opera, se c’è, è nell’andare verso. Quindi è una verità che non si può possedere?
Credo che pensare di possederla sia un errore. È come per chi sceglie di entrare in convento: decide di iniziare un percorso, un andare verso; questo mi sembra una grande cosa. L’aver fatto questa scelta non consente di sentirsi giunti a destinazione. Più passa il tempo più si mostra un enigma. Questa è la cosa formidabile dell’arte, d’altra parte io dico sempre che l’arte tende sempre alla perfezione perciò è sempre imperfetta. È indicibile, indecifrabile, inconcepibile: in ogni caso continua a mandarci dei segnali, a porci delle domande…

L’altra domanda che molti facevano a Rimini è: «Dove è finita la bellezza dell’arte antica? Nell’arte di oggi non c’è più».
Il termine bellezza è in sé sfuggente, occorre riappropriarsene continuamente. Un oggetto che cinquant’anni fa veniva considerato brutto oggi magari viene rivalutato e preso a modello. È una parola che comunemente viene usata con leggerezza, ma ha in sé sia una dimensione estetica che una interiore. Ad ogni modo è sempre legata alla sensibilità dell’uomo nella storia, alla sua vita. Per comprenderla meglio mi piace accostare alla parola bellezza l’aggettivo vitale.

D’accordo, ma l’arte antica?

L’arte del passato aveva uno scopo didattico e conoscitivo, aveva l’esigenza di comunicare una narrazione specifica. I grandi committenti del passato, i principi, i signori e soprattutto i Papi, desideravano comunicare al popolo degli episodi concreti molto precisi e non competeva all’artista reinterpretare arbitrariamente questi fatti. Ma per rappresentare questi temi si affidavano a un artista capace di garantire, oltre all’ortodossia del contenuto, anche una propria visione che interpretasse la sensibilità del tempo. Per questo vennero scelti alcuni importanti artisti che allora erano informatori capaci di raccontare attraverso le loro opere varie storie; ad esempio Giotto venne scelto per narrare la storia di san Francesco, affinché il popolo potesse comprendere meglio.

Adesso non funziona più così.

Ma anche allora il problema era più complesso: l’arte non si limita alla narrazione. Esiste il tema del linguaggio. Per esempio, una Madonna col Bambino di Giotto: dalla tensione della Madonna si percepisce il peso reale e consistente di quel bambino. Se pensiamo, invece, alla pittura bizantina notiamo subito uno scarto linguistico: figure piatte su fondo oro, metafisico. Con Giotto l’uomo comincia a essere un corpo, un corpo reale. Questi esempi mostrano come la storia dell’arte, e quindi la storia dell’uomo, sia percorsa da una ricerca sul linguaggio per portare significati diversi. Non è più solo narrazione.

È una visione del mondo…

Basti pensare alla differenza tra la Crocifissione di Masaccio in Santa Maria Novella e la Deposizione di Rosso Fiorentino di Volterra. Raccontano la stessa storia, ma il modo in cui sono dipinte mostra una diversa visione dell’uomo. Si passa dalle certezze del primo rinascimento ai dubbi del manierismo che si approfondiscono fino ad arrivare al buio enigmatico di Caravaggio.

L’arte di oggi, però, sembra aver perso il rapporto con la realtà.
L’arte, quando è vera, ha sempre un rapporto stretto con la realtà. E ha sempre un’implicazione narrativa, anche nelle opere concettuali. Diciamo che da quando hanno inventato la fotografia, l’arte comincia a occuparsi sempre più di quello che non è possibile vedere con gli occhi e questo, inevitabilmente, crea dei problemi perché aumenta la complessità dell’opera stessa.

E lei? Prova a opporsi a questa confusione?
Faccio quello che posso, ed è quello che cerco di fare con il mio lavoro e forse in particolare negli spazi pubblici. Il mio tentativo è di affrontare un’opera anche dal punto di vista etico, in rapporto cioè con gli altri, con le persone, la gente… E la gente siamo noi. Così nelle mie opere parlo, ad esempio, della nascita, che riguarda tutti. Parlo dei fulmini, perché il cielo è di tutti… Posso anche pensare che un’opera d’arte può considerarsi tale solo nel momento in cui viene resa pubblica.

Perché?
Perché appartiene agli altri, non è più mia. È come avere un figlio. Quando ho portato mio figlio per la prima volta all’asilo ho capito una cosa importante che era il lasciarlo andare con la maestra insieme agli altri bambini. E lì ho realizzato che l’atto d’amore veramente formidabile è quando lo consegni al mondo, gli consenti di uscire dalla dimensione famigliare, in qualche modo lo rendi “pubblico”. La stessa cosa avviene con le opere. Sono per la gente, ma bisogna fare attenzione e occorre portare il lavoro a un livello linguisticamente molto sofisticato per non scadere nel populismo demagogico.

Il cardinale Parolin, l’anno scorso al Salone del libro di Torino, ha girato al mondo della cultura la domanda di Gesù: «Dov’è il vostro tesoro? Perché è là il vostro cuore». Dov’è il tesoro di Alberto Garutti?
È una domanda difficile: da una parte sono rivolto agli affetti personali, dall’altra al mio lavoro, che non è soltanto un mestiere ma è ciò di cui mi nutro, un modo di esistere, di stare al mondo. Boetti in una sua opera dice: Mettere al mondo il mondo. Per me è esattamente questo: un tentativo di conoscenza e un desiderio profondo di generare, uno slancio assoluto. Ha a che fare con il protendersi oltre i propri limiti e permette di accedere a una dimensione universale. Tutto questo mi è necessario, forse rientra in qualche meccanismo profondo di conservazione della specie… Se per esempio mi dicessero che da domani non potrò più fare l’artista, per me sarebbe durissima.

Perché ha a che fare con la vitalità?
Ha a che fare con la vita.

FRANK HORVAT SI DIVENTA

FRANK HORVATL’altra settimana è uscita su Tempi una mia intervista a Frank Horvat. La trovate qui.

Ecco il brano più interessante:
Tuttavia, a giudicare dagli ultimi scatti (la buccia di un mandarino, un sasso nell’acqua, le dita di un piede tra le lenzuola), non sembra che qualcosa stia davvero accadendo. «Lo so, c’è un apparente contraddizione: quando io fotografo due mele, molti dicono che in un’immagine così non succede niente e che se le fotografassi un’ora dopo sarebbero uguali. A me invece sembra che succeda qualcosa nella mia testa. Perché magari un’ora dopo non avrò più voglia di fotografarle così, non le vedrò più così, non mi sembreranno più interessanti. Sono state interessanti perché in un certo momento, per un’associazione di idee particolare, io le ho viste come interessanti. È qualcosa che succede nel mio modo di vedere. Ma si tratta sempre di fermare qualcosa che succede. Di fermare il tempo. Ed è anche la ragione per la quale con dispiacere non ho mai fatto del cinema. Con il cinema si va con il tempo, non lo si ferma. Questo io non lo so fare, ma mi sarebbe piaciuto». Che film le sarebbe piaciuto girare se avesse potuto? «Se avessi potuto cambiare la mia vita con quella di Ingmar Bergman, l’avrei fatto».

LUCA DONINELLI SUL DISCORSO DEL PAPA AGLI ARTISTI

INTERVISTA A LUCA DONINELLI

Dal Giornale del Popolo del 28 novembre 2009

Doninelli, cosa ha pensato quando si è trovato davanti al Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina?
Davanti al Giudizio Universale e anche sotto la volta con le storie della Genesi… beh, lì siamo nel centro della storia dell’arte e al centro di questo rapporto misterioso che c’è tra santità e bellezza. Un rapporto che è stato completamente dimenticato nel nostro tempo, anche se la reazione degli altri artisti ha confermato la mia: in realtà tutti noi sappiamo che la bellezza ha qualcosa a che vedere con il sacerdozio.

In che senso con il sacerdozio?
In quel luogo c’è una totale unità del fatto che si è di fronte all’opera centrale della storia dell’arte e del fatto che è anche il luogo dove si eleggono i papi. A questo si aggiunge che il soggetto di quell’affresco è il giudizio. “Giudizio” non nel senso di “condanna”, ma nel senso di risposta a ciò che tutti attendiamo. Noi non sappiamo chi siamo e desideriamo che qualcuno ce lo dica. Stare di fronte al Giudizio universale suggerisce l’idea che Dio ha pensato e pensa il mondo come un atto di bellezza, come un atto di poesia e proprio per questo come un giudizio.

Perché un atto di bellezza è anche un giudizio?
Il giudizio o è una condanna o è l’affermazione di uno splendore. O l’universo esiste per finire in una discarica (ma noi sappiamo che non è vero anche se poi diciamo che è così perché la modernità ci ha insegnato che va bene dire così), oppure è l’affermazione di una positività (il che dà più ragione del fatto
che le cose nascono). E quindi è nella bellezza che emerge il giudizio su che cosa noi siamo realmente. Perché, tra l’altro, dire che noi siamo fatti per il nulla è un bel modo per deresponsabilizzarci.

Il Papa cita Georges Braque : «la scienza rassicura, l’arte è fatta per turbare »…
Sì, perché nell’arte prende corpo l’esperienza del bello, e in questa esperienza non ci è più chiesto di dare un posto alle cose, ma di riconoscere l’irrompere del significato delle cose. È come se la legge matematica più difficile noi potessimo vederla come una cosa concreta… Quindi in questo senso è una ferita, un irrompere. C’è qualcosa che arriva nella carne. L’arte rimane sempre profezia dell’Incarnazione, ma nello stesso tempo se l’artista non tiene aperta quella ferita diventa un trombone. Il rischio è di non restare al livello della ferita che la bellezza ci procura, adagiarsi su posizioni più comode. È una cosa che dissi molti anni fa in un convegno e perfino Alessandro Baricco rimase molto colpito da questa affermazione, quindi doveva essere qualcosa di davvero forte, se ne è stato colpito anche Baricco… Quella ferita è una domanda d’Incarnazione. Tra l’altro in questo si gioca la questione della contemporaneità…

In che senso?
Che cosa vuol dire fare un’opera attuale? Che cosa vuol dire essere contemporanei? Vuol dire seguire i trend come credono molti scrittori italiani che si rifanno ai modelli americani di una decina di anni fa? Ciò che è davvero contemporaneo è questa ferita. La sfida del Papa agli artisti non è: «fate dell’arte cristiana» o «fate dell’arte ideologicamente cattolica». La vera sfida è : «Agite obbedendo a quella ferita». Questo poi significa esporsi al fallimento, perché è praticamente impossibile essere all’altezza della ferita della bellezza. Chi può scrivere un romanzo bello come un tramonto? O bello come il cielo stellato. Nessuna sinfonia può essere al livello di un cielo stellato d’agosto…
Francis Bacon diceva che passava da fallimento a fallimento…
Anche Dante inizia la Divina Commedia smarrito e la prima azione concreta che fa è dire «miserere mei» a uno che non sa nemmeno se è «omo od ombra». Dante non sa che è Virgilio e non distingue neanche se sia un uomo o un’ombra… Immaginati come era messo Dante in quel momento: le ha provate tutte e ha fallito. Che è come dire che stare a livello della ferita della bellezza è impossibile. Stare al livello della ferita che Beatrice ha inflitto al cuore di Dante è impossibile. Tu non puoi scrivere un libro pari a quella ferita, ma proprio in questo l’artista si spalanca. I poeti antichi invocavano la musa perché la realizzazione di una forma adeguata è un dono.

Mi ha impressionato la citazione di Von Balthasar: chi considera la bellezza un ninnolo all’esotico non è più capace di pregare e presto non sarà più capace di amare. Davvero se uno non riconosce la bellezza in questo senso non è più capace di amare?
Io credo di sì, perché prima di tutto tu che cosa ami se non qualcosa di bello? Secondo: perché la bellezza è altro da te. Tu di fronte alla bellezza sei di fronte a qualcosa che è diverso da te. Quindi è il riconoscimento di un’altra misura. Allora io penso che quando uno non riconosce più la bellezza vuol dire che non è più disposto a riconoscere una misura diversa da sé. E allora che cosa ama? Alla fine è come quella gente che è capace di parlare solo di sé stessa.

Ma l’uomo non è ferito solo dalla bellezza. Pensando alle storie che lei racconta nei suoi libri, la relazione con la bellezza non è immediata. Mi riferisco soprattutto alle trame…
Noi possiamo sostituire la parola “bellezza” e usare la parola “giustizia”. È una situazione dolorosa che mi fa cominciare a scrivere un romanzo. Come diceva Tolstoj, si incomincia dalle cose che non vanno bene. Ma a livello di trama, come dici tu, il problema è che cosa rende giustizia fino in fondo? Se io devo parlare di un dolore, che cosa rende giustizia fino in fondo di questo dolore? Ciò che rende giustizia fino in fondo a questo dolore è una cosa non mia. Proprio in questo senso c’entra la bellezza. Nei miei libri ho sempre cercato di dire questa cosa. È l’essere percossi da qualcosa di altro. Altrimenti se stiamo alla nostra misura possiamo raccontare solo il fatto che tutto finisce nel nulla. Lo scrittore ha la necessità di rendere giustizia delle cose di cui parla. Se io parlo di un dolore, di un amore che finisce, di uno stupro, di un assassinio, la domanda è: come fare in modo che l’umanità sia conservata pienamente, come fare in modo che il cinismo non prevalga? Non sono cinico non perché io appartengo all’ideologia cristiana, perché si può essere enormemente cinici facendo i confessionali, facendo i cristiani. Ciò che rende giustizia di un orrore, di una cosa brutta è il mio spalancarmi a qualcosa d’altro che accade. Per cui la scrittura è sempre l’attesa di un avvenimento. Perché anche se hai in testa tutta la storia che vuoi raccontare, se mentre scrivi non preghi, non stai neanche scrivendo. Che poi pregare non è che vuol dire recitare il “Padre nostro” o “L’ave Maria”, può essere anche qualcos’altro, può essere un’invocazione. Ma il punto è questo.

MARGARET CHAN, OCCHI D’AQUILA SUL VIRUS

Dal Giornale del Popolo del 10 novembre 2009

Margaret Chan è una donna decisa a cui non piacciono i giri di parole. Dal 2006 è Segretario Generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) e negli ultimi sei mesi è stata in prima linea nella battaglia contro l’influenza suina o, se preferite, contro il virus H1N1. Molti, anche il GdP, l’hanno criticata per aver alimentato un inutile allarmismo attorno a una pandemia che ad oggi non sembra essere così tremenda come l’OMS l’aveva dipinta inizialmente. La dottoressa Chan è anche la persona più potente della “Ginevra internazionale” e, nonostante abbia una certa confidenza con i media, è avara di interviste con la stampa svizzera. L’abbiamo incontrata con un ristretto gruppo di giornalisti e ha risposto alle nostre domande.

Dottoressa Chan, come giudica la situazione attuale della pandemia di influenza A?
L’OMS continua a definire la situazione attuale della pandemia come “moderata”. Ne stiamo monitorando lo sviluppo e l’evoluzione con l’aiuto degli Stati membri e degli altri partner. In questo momento stiamo assistendo a un incremento delle attività influenzali nell’emisfero Nord. Nell’insieme assistiamo a un aumento delle attività influenzali, ma ciò che mi preme sottolineare è che è in atto una sovrapposizione dell’influenza A con la normale influenza stagionale. Normalmente l’influenza stagionale non presenta un’attività così intensa in questo periodo. Occorre dunque continuare a monitorare la situazione perché un a numero sempre crescente di casi ci aspettiamo corrisponda un aumento proporzionale dei casi gravi.

Che bilancio fa di questi mesi di lotta al virus?
La lezione che abbiamo imparato in questa prima fase è che ogni paziente con sintomi, particolarmente i casi a rischio, deve essere sottoposto alle terapie prima che arrivi il risultato del test sul virus: non in tutti i paesi, infatti, il risultato del test arriva in un giorno. Spesso occorrono anche quattro giorni. La nostra esperienza dice che i trattamenti precoci riducono i casi gravi e riducono i casi di morte.

In questi giorni in Svizzera sta arrivando il vaccino…
Le campagne di vaccinazione si devono realizzare secondo i criteri che abbiamo indicato e cioè partendo dalle categorie a rischio e dalle categorie professionali sensibili. È importante, ad esempio, che i lavoratori del settore medico-sanitario vengano vaccinati: se si ammalano loro in massa chi curerà gli altri?

Come Margaret Chan vive le critiche che le sono state rivolte di aver esagerato nel lanciare gli allarmi?
Sa immaginare cosa sarebbe successo al mondo se negli scorsi sei mesi non ci fosse stato nessun allarme da parte dell’OMS? Consideri il numero di persone che oggi sono salve grazie all’uso del Tamiflu. Cosa sarebbe successo se questo medicinale non fosse stato somministrato? Il Tamiflu serve a salvare vite umane. Certamente la maggior parte dei pazienti affetti dal virus sono guariti senza bisogno di assumere medicine. E questa certamente è la buona notizia. Ma se questo virus si diffonde in tutto il mondo, cosa accadrebbe laddove e non esistono cure o vaccini? L’allarme tempestivo è sempre importante perché permette ai singoli Paesi di prepararsi adeguatamente.

Cosa risponde a chi sostiene che non è necessario vaccinarsi perché gli effetti del virus sono moderati?
A noi è chiaro che nei soggetti a rischio il vaccino è uno strumento efficace per proteggere la gente ed evitare le morti. Una volta ho ricevuto una chiamata da un’ambasciatrice che sta a qui a Ginevra che mi diceva: «Se qualcuno la accusa di aver lanciato l’allarme troppo presto, verrò io a difenderla». Le ho risposto che quello è un lavoro che devo fare io. E lei ha aggiunto che aveva quasi perso la vita.
È importante per noi ricordare che non possiamo prendere sotto gamba un nuovo virus influenzale, perché le caratteristiche di un virus influenzale sono davvero imprevedibili. Non ho timore a dire che nella mia vita l’esperienza che più mi ha costretto ad essere umile è quella di confrontarmi con un nuovo virus in arrivo. Non puoi dare nulla per scontato. Devi osservarlo con occhi d’aquila e non staccarglieli mai di dosso.

INCONTRO DI CIVILTÀ SPINGENDO CARROZZELLE

Da Vita del 21 novembre 2008

Le cose più impensabili capitano nei posti più impensabili. Come a Zarqa, ad esempio. Zarqa è una piccola città giordana a pochi chilometri a nord-est di Amman. In questa povera località industriale esiste uno dei più antichi campi profughi palestinesi creato dalla Croce Rossa nel 1948. A tutt’oggi la comunità di origine palestinese è composta da circa 18mila anime, il cui membro più illustre aveva un nome che ancora oggi evoca terrore: Abu Musab al-Zarqawi. Qui, in un contesto intriso di fondamentalismo, è successo l’impensabile. Il fatto è semplice: una ong creata dalla comunità cattolica latina, lo Our Lady of Peace Centre di Amman, ha incominciato ad occuparsi della cura dei disabili vincendo poco alla volta l’iniziale diffidenza della maggioranza musulmana. La fotografia simbolo di questo piccolo miracolo è quella del vescovo cattolico Selim Sayegh, vicario patriarcale dei latini di Giordania, che spinge un bambino in carrozzina a fianco delle autorità musulmane durante una marcia di sensibilizzazione per i diritti delle persone disabili. «In Giordania», spiega a Vita Majdi Dayyat, presidente del comitato organizzativo dello Our Lady of Peace Centre, «il numero dei disabili è enorme: si stima che siano 600mila, circa il 10% della popolazione. Lo scopo della nostra organizzazione è quello di far crescere la consapevolezza dei problemi dei disabili nel nostro Paese. Il primo obiettivo è quello di veder riconosciuti i diritti di queste persone, e per noi il primo loro diritto è il diritto alla dignità. L’altro nostro obiettivo è quello di offrire assistenza gratuita a queste persone». Non è ancora chiaro perché vi sia un così alto numero di disabili nel Paese, anche se per Dayyat le ragioni vanno cercate nell’eredità delle guerre del passato e nella diffusa endogamia nelle tribù locali. Una cosa è certa: per una famiglia giordana avere un figlio disabile è una vergogna insostenibile di fronte alla società. «Queste persone», continua Dayyat, «vengono fatte vivere nell’ombra e sono isolate dalla società perché la società non le accetta. Dunque i disabili non vengono fatti uscire di casa per non subire l’umiliazione dello scherno da parte del resto della popolazione. Questo isolamento, di fatto, coincide con la privazione della libertà». Il lavoro per entrare e scardinare questa mentalità è lungo e faticoso, ma nonostante l’esiguità delle forze sta iniziando a dare i primi frutti. La gente prende coraggio e decide di scendere in strada spingendo le carrozzine dei propri figli, a volte anche deformi, per far sapere a tutti di aver scoperto il valore unico e grande di quelle persone loro affidate. «Abbiamo organizzato molte marce nei diversi governatorati giordani. Cinque a Madaba, cinque ad Aqaba, tre a Zarqa, due a Masraq e una a Fuheis. I cortei partono dalla moschea locale e arrivavano alla chiesa della città. Siamo riusciti a coinvolgere le autorità locali, i dirigenti delle scuole, il responsabile nazionale delle politiche religiose, il ministro delle politiche sociali». La prima reazione delle famiglie è sempre di diffidenza: in un mondo in cui la religione ha ancora un grandissimo ruolo sociale, un gruppo di cristiani che offre aiuto a famiglie musulmane viene subito sospettato di proselitismo. Ma quando la gente comincia a conoscere, tende a fidarsi e inizia a collaborare. «Prendendo contatto con le famiglie », spiega Dayyat, «cominciamo a dire loro che questi bambini sono persone come noi, hanno la stessa dignità di qualsiasi altra persona. Noi siamo un’organizzazione cattolica e per noi questo discorso ha un fondamento religioso. Noi crediamo che queste persone sono create da Dio come noi, la loro dignità viene da Dio». Sembra impossibile, ma parlare apertamente di questi temi anziché allontanare gli interlocutori sembra avvicinarli: «Siamo convinti che questo background religioso possa costituire una base comune per collaborare con i nostri fratelli musulmani. Da questa collaborazione tra cristiani e musulmani nasce l’ambizione di portare un messaggio che possa cambiare la mentalità». E il Paese cambia, davvero. La maggior parte delle marce ha avuto un buon successo. Soprattutto a Zarqa, Aqaba e Madaba dove i partecipanti sono stati tra i mille e i quattromila. E non solo. Le famiglie cominciano affidare i propri figli disabili alle cure dei cristiani, e l’organizzazione da parte sua ha iniziato a reclutare volontari e coordinatori musulmani. E qualcosa si muove anche a livello politico? «Da un punto di vista legislativo», conclude soddisfatto Dayyat, «sul tema dell’handicap in Giordania si è passati da un’impostazione di tipo “caritatevole” a un approccio fondato “sui diritti” dei disabili. Questo per me è un passo davvero importante, tanto che la Giordania è stato il primo Paese del mondo arabo insieme alla Tunisia a firmare la convenzione delle Nazioni Unite per i diritti dei disabili». Non solo: Mohammed Al-Tarawneh, responsabile del progetto di sviluppo delle politiche sulla disabilità del governo giordano, è stato eletto tra i 12 esperti indipendenti che, come previsto dall’articolo 34 della stessa Convenzione, veglieranno sull’implementazione della Convenzione negli Stati che l’hanno ratificata.

SALLUSTI SI REINVENTA "L’ORDINE"

INTERVISTA A ALESSANDRO SALLUSTI

Dal Giornale del Popolo del 3 giugno 2008

Quattro giornalisti, sei pagine, una testata storica e come direttore uno dei “ragazzacci” del giornalismo italiano. Così rinasce “L’Ordine” di Como: alla guida di Alessandro Sallusti, uno che giornalisticamente all’Ordine ci è nato per poi passare dal “Sabato”, “Avvenire”, “Il Messaggero”, “Il Corriere della sera”, “Il Gazzettino”, La Provincia” e, con Vittorio Feltri, a “Libero”. In edicola uscirà ad ottobre.

Sallusti, com’è nata l’idea di un nuovo giornale?
Era un mio sogno nel cassetto quello di ridare vita a “L’Ordine”. Una sorta di debito da pagare: è stato il giornale con il quale ho iniziato una professione che mi ha dato tante soddisfazioni. L’intuizione è che i giornali generalisti, anche quelli locali, assorbono pienamente la loro funzione di giornali di servizio, ma lasciano aperta un’esigenza di mercato: quella di un giornale indipendente di opinione. Questa intuizione l’ho sperimentata con Vittorio Feltri fondando “Libero”.

E “Libero” è stato un successo…
Sì, questo mi ha fatto pensare che l’esperimento si potesse provare anche a livello locale. “L’Ordine” sarà un giornale di seconda lettura, di opinione, che copra un’esigenza di mercato che secondo me esiste. Oggi la gente vuole avere opinioni, provocazioni culturali, politiche, più che notizie con le quali già è bombardata.
È un tipo di giornale che non esiste, come pensa di farlo?
Con esattezza non lo so, come con esattezza non sapevamo come fare “Libero”. Io non credo che esista una ricetta, il giornale è una cosa che devi vivere giorno per giorno. Io sento a pelle che lo spazio per questo giornale esiste. Il tentativo sarà di unire i problemi locali con quelli nazionali. Ad esempio: se a Como si discutesse se costruire o no una moschea, si tratterebbe sicuramente di un problema locale, ma dal punto di vista culturale e politico il problema sarebbe generale. Allora su questo problema della moschea di Como perché non fare intervenire, ad esempio, Magdi Allam o Daniela Santanchè? Oppure: se a Como c’è il problema delle municipalizzate: è giusto privatizzarle? È giusto portarle in borsa? Perché non chiedere il parere di grandi economisti nazionali che portino un contributo per alzare il livello del dibattito locale?
Ha già in mente qualche firma?
<+tondo>No perché non ci sono dei contratti, siamo molto poveri… Ma immagino che se di volta in volta a seconda dei temi interpello persone con le quali ho lavorato per anni nei vari giornali in cui sono stato, credo che non sia un grosso problema convincerli a partecipare a questo “gioco”.

“L’Ordine” era proprietà della Curia, ora a chi appartiene?
Oggi l’azionista di maggioranza sono io, perché la condizione per intraprendere questo progetto è che il giornale sia dei giornalisti, che sia completamente sganciato da ogni potere. Altrimenti bisognerebbe scendere a molti compromessi. Oltre a me, i soci di questa società sono da una parte Carlo Ripamonti, un imprenditore avanti con gli anni, molto prestigioso che non ha interessi politici sulla città. Dall’altra gli Angelucci, gli editori di “Libero”, che parteciperanno dando un supporto tecnico all’impresa.

L’orientamento resterà cattolico?
Il giornale che rinasce sarà un giornale laico, i tempi sono cambiati, io sono l’editore e non sono né prete né vescovo, sono laico. Ma culturalmente non avremo nessun problema a stare nel solco di quella che è la tradizione de “L’Ordine”. Io ritengo che il cattolicesimo sia uno dei pilastri, se non “il” pilastro della nostra società.

ISRAELE, QUELLO STATO BAMBINO CRESCIUTO NELLE CONTRADDIZIONI

INTERVISTA A VITTORIO DAN SEGRE

Dal Giornale del Popolo del 15 maggio 2008

Solo, seduto su una torretta di guardia in mezzo a un aranceto a venti chilometri a Nord di Tel Aviv. Accanto a sé un cavallo, un fucile e una radio militare che gracchia le parole di David Ben Gurion che proclama la nascita di Israele. Vittorio Dan Segre ha 22 anni e non può ancora saperlo, ma la storia riserverà grandi cose a lui e a quello Stato bambino e già costretto a difendersi. Prima soldato semplice, poi diplomatico, poi professore universitario a Oxford, all’MIT di Boston e alla Stanford University e fino alla fondazione, a Lugano, dell’Istituto di Studi Mediterranei. Segre è un protagonista, un testimone e un analista acuto della parabola di un giovane Stato che ha compiuto sessan’anni.

Professor Segre, cosa ci faceva in quell’aranceto?

Nel maggio 1948 io attendevo di essere destinato ad un’unità paracadutista che speravo di poter creare in base alla mia esperienza di sei anni nell’esercito britannico. Avevo presentato una domanda, ma in Israele non esistevano né paracaduti né estensioni di terreno sufficientemente larghe per permettere dei lanci, così come mi aveva detto il nuovo comandante dell’aviazione. In attesa di essere chiamato a funzioni più interessanti avevo accettato di fare la guardia a cavallo. Così, solo, in mezzo al silenzio di quell’aranceto assistetti da lontano e senza gloria alla nascita del primo Stato ebraico dopo duemila anni.

Che clima si respirava nei giorni della vigilia di quell’evento?
Bisogna tener conto di chi respirava. Immagino che c’era gente molto preoccupata, ma chi come noi era giovane, io avevo 22 anni, e che attendeva con emozione e impazienza l’esito dello scontro che era già in corso. Almeno nelle nostre file c’era un senso, forse folle, di totale sicurezza. Il che era spiegabile non soltanto con la nostra giovane età, ma soprattutto per il fatto che tutti sapevamo che avevamo bruciato i ponti dietro di noi. Di conseguenza, come Cortes in Messico, non potevamo che vincere, altrimenti saremmo spariti.

Che attese avevate e quali tra esse si sono realizzate?

L’attesa era semplice: la creazione di uno Stato e la possibilità che sopravvivesse. In questo senso eravamo arrivati alla stazione finale del movimento di liberazione nazionale ebraica, del sionismo. Un po’ come nel caso del Risorgimento italiano, tutto quello che successe dopo, nel bene e nel male, era qualcosa in più, al massimo degli ideali per i quali eravamo andati a combattere.

Come giudica questi sessan’anni?
Sono stati un continuo miracolo. Logicamente non c’è nessuna ragione per la quale un piccolo gruppo, si trattava allora di al massimo 600mila persone, potesse da un lato respingere l’offensiva dei Paesi confinanti. È poi difficile spiegare come un Paese coloniale senza risorse, nel quale nel 1934 una commissione britannica aveva detto che non c’era più posto neanche per un gatto, potesse diventare non soltanto la più grande comunità ebraica del mondo, ma anche un Paese che da agricolo si è trasformato in un post-industriale all’avanguardia dell’industria high-tech. È poi straordinario che un Paese in situazione di guerra ininterrotta, fatta eccezione dei due trattati di pace con Egitto e Giordania, si stia sviluppando negli ultimi sei anni al ritmo dell’economia asiatica. Tutto questo se lei lo guarda dal punto di vista di allora sembra assolutamente inspiegabile.

Quale parte del sogno non si è realizzato?
In particolare non si è realizzata una società modello. La società che costituisce lo Stato di Israele è una società normale nell’anormalità della situazione politica, ma molto simile a quella di tutti gli altri Paesi democratici.

Qual è la singolarità dello Stato di Israele?
Lo Stato è nato come Stato sionista degli ebrei. Oggi invece è sempre più uno Stato ebraico. La differenza è enorme. C’è una differenza di legittimità del potere. Uno Stato degli ebrei è uno Stato in cui la legittimità del potere viene determinato dal parlamento e dal voto popolare, uno Stato ebraico deve tener conto che per almeno una parte crescente della popolazione la base della legittimità è la Bibbia, è il legame millenario del popolo ebraico con la terra di Israele. Il secondo punto molto evidente è il fatto che si tratta dell’unico Stato ebraico in mezzo a circa 153 Stati cristiani e una trentina di Stati musulmani, ma è l’unico Stato in cui i cittadini, volenti o nolenti, religiosi o atei, per il solo fatto di dichiararsi membri di uno Stato ebraico portano con sé il messaggio di un monoteismo aristocratico, mosaico e morale, che si trova in pieno contrasto con una società che diventa sempre più materialistica, amorale e pagana. Di conseguenza continua il vecchio dramma tra il monoteismo ebraico e il paganesimo. La terza ragione è che lo Stato di Israele rappresenta in un certo senso il risveglio di un fossile. Di una civiltà che si riteneva morta, come quella greca o romana. In realtà si è rivelato, come nella profezia di Ezechiele, un morto che si è risvegliato e che ha ripreso la sua posizione sulla scena internazionale. Questo non soltanto è qualcosa di stupefacente, ma è qualcosa che preoccupa gli Stati del Medioriente, che si vogliono nazionali e unitari ma che invece sono dei mosaici di altri tipi di fossili che vorrebbero riavere se non la sovranità almeno un’autonomia che i Governi non sono disposti a concedere.

Non tutti in Israele condividono la stessa concezione di Stato, quali sono le posizioni principali?

È molto chiaro che lo Stato ebraico, come del resto lo Stato israeliano, soffre di un grosso problema di definizione e di identità. Per questo non c’è ancora una Costituzione, ad esempio. La discussione fra teocrazia e democrazia è ancora aperta. Ciò che lo distingue dai Paesi in cui questi problemi sono ancora più evidenti è che la discussione avviene in piena democrazia, senza violenze. È strano che problemi di questa profondità non abbiano provocato lotte civili.

David Ben Gurion, Golda Meyer, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Ariel Sharon. Qual è il protagonista che più rappresenta la storia di Israele?

Credo che ci sia stato un solo grande uomo di Stato. Un solo politico divenuto uomo di Stato. Questo uomo è Ben Gurion. È stato lui a fondare lo Stato e lo ha guidato per un decennio nei suoi momenti più difficili. Il padre della patria è lui. Nella stessa maniera in cui padri del movimento sionista sono stati Theodor Herzl nel XIX secolo e Chaim Weizmann nel XX insieme a leader del sionismo revisionista Vladimir Jabotinsky. Penso sia questa la triade sionista, mentre per quello che concerne lo Stato, la personalità che troneggia su tutte le altre senza possibilità di confronto, nel bene e nel male, è quella di Ben Gurion.

Nel 1948 nasce un nuovo Stato, eppure secondo le Nazioni Unite erano due gli Stati che dovevano venire alla luce. Quali sono state le responsabilità di Israele e rispettivamente degli Stati arabi nella “non-nascita” dello Stato palestinese?
Questa è una delle poche questioni chiare. I due Stati non erano riconosciuti solo dall’ONU, ma erano stati riconosciuti anche da Israele. Mentre sono stati rifiutati con le armi dagli arabi. Questo fu il peccato originale dei palestinesi e di chi allora li sosteneva. I palestinesi oggi pagano duramente quella decisione.

Qual è stato il momento più luminoso di questi sessant’anni e quale quello più buio?

Il momento più luminoso ed entusiasmante, ma è stato anche il momento più critico, è stata la Guerra dei sei giorni che è apparsa a molti come un miracolo. Purtroppo nessuno dei dirigenti israeliani ebbe la levatura storica di comprendere gli immensi pericoli che nascevano dal controllo di uno Stato su territori altrui e su un popolo altri. Non si può dire che non sapessero: furono non i pochi pensatori israeliani che videro, quasi profeticamente, il futuro. Ben Gurion non era più a capo del governo ma disse all’indomani della vittoria che bisognava restituire tutti i territori occupati, ad eccezione di Gerusalemme Est per cui era convinto ci fossero dei margini di trattativa. Ed è triste che ci siano voluti quarant’anni perché l’attuale Governo di centrodestra sia tornato sulle posizioni del 1948-49 con il riconoscimento della necessità della creazione di due Stati. La mente umana dei politici lavora molto più lentamente dei corsi della storia.

Alla fine dell’anno scorso alla conferenza di Annapolis si è affermata la volontà di arrivare entro quest’anno a un accordo di pace tra Israele e palestinesi. Pensa vi siano le condizioni perché questo avvenga?

Neanche per idea. La conferenza di Annalpolis è stato il tredicesimo o il quattordicesimo tentativo, fallito, di pace con i palestinesi. Non ci sono assolutamente le condizioni per un accordo e oggi ce ne sono meno che in passato: La parte più armata, decisa, organizzata dei palestinesi non solo non vuole lo Stato di Israele, perché lo vuole distruggere ( a dirlo è la stessa costituzione di Hamas), ma non vuole nemmeno lo Stato palestinese. È questa la cosa assurda. Perché Hamas e Hezbollah vogliono uno Stato islamico, non uno Stato palestinese.