VIAGGIO IN TERRA SANTA/1

Giornale del Popolo, 21 febbraio 2007

Tiberiade. Dopo il pieno di benzina la vecchia Volkswagen era pronta per partire. Il confine di Chiasso, poi giù per la pianura padana fino a Trieste. Jugoslavia, Bulgaria, Grecia, Turchia, Libano, Siria, Giordania e infine l’entrata trionfale in Israele. Questo l’avventuroso itinerario del primo viaggio in Terra Santa di mons. Pier Giacomo Grampa che, nei gloriosi anni Sessanta, con due amici preti giunse in queste terre come si faceva allora: un po’ perché l’aereo costava troppo, un po’ – forse – perché il mito del romanzo di Kerouack “On the road” bolliva nel sangue di quei tre giovani appena usciti dal seminario. Per il suo ottavo viaggio in Palestina mons. Vescovo ha scelto altro tragitto (questa volta è bastato un volo di linea Alitalia) e altra compagnia. Con lui infatti ci sono due gruppi entrambi composti da giovani: uno dai seminaristi dei due seminari diocesani, uno da giovani tout court, pescati un po’ ovunque nei quattro angoli del Cantone. Chi scrive appartiene al secondo gruppo e da queste parti capita per la prima volta.
Fuori dal finestrino del pullman che ci porta dall’aeroporto di Tel Aviv alla “Domus Galilaeae”, sul Lago di Tiberiade, scorrono le immagini di un paesaggio che cambia ogni dieci minuti. Fitte case bianche di insediamenti di Coloni ebrei si alternano a villaggi arabi; brulli campi disseminati di rocce lasciano il posto a macchie verdi fatte di cespugli o addirittura piccoli boschi di latifoglie o cipressi. Arrivati in Galilea il territorio si copre di verdissimi prati. «Solitamente il paesaggio è molto più arido – dice Marcello, la nostra guida –. Recentemente ha piovuto e qui quando capita tutto si tinge di verde in men che non si dica». A tratti sembra di vedere i pendii del centro Italia. Chessò: l’Umbria o le Marche. Alla “Domus Galilaeae” ci aspettano i padroni di casa: la comunità del Cammino neocatecumenale. Nell’atrio del monumentale complesso progettato dalla matita dello stesso Kiko Argueillo ci accolgono con uno dei loro canti caratteristici. La casa ha i comfort di un albergo quattro stelle, ma l’atmosfera che si respira è un’altra, per fortuna. La Messa, poi la cena. Don Rino annuncia che alla fine della cena ognuno si potrà far servire superalcolici offerti dalla casa. Il pellegrinaggio – penso – comincia nel migliore dei modi. Prima di andare a dormire vado ad affacciarmi sull’immensa terrazza che dà sulla conca del Mare di Galilea. Sull’acqua si riflettono le luci di Tiberiade che se ne sta lì, come distesa a dormire sul dolce pendio. Tornando in camera passo accanto alla sala da pranzo. Ci sono ancora i camerieri (ragazzi che frequentano il “cammino”) che rimettono a posto i tavoli e puliscono il pavimento. Mi fermo un attimo e ascolto. Ora et labora: stanno recitando il rosario. Il mattino dopo, di buonora, il pellegrinaggio inizia sul serio. Si parte in pullman, direzione: Monte Tabor. Erano giovani come noi Pietro, Giacomo e Giovanni. Su questo monte videro ciò che tutte le generazioni di ebrei prima di loro avevano desiderato vedere: la Gloria del Messia. Solo che il Messia era diventato loro amico, il loro amico. Ora se ne stava lì a chiacchierare con Mosè ed Elia. Sarebbero stati lì a guardarli parlare tutta la vita: «Maestro, facciamo tre tende…». Poi una breve sosta nel villaggio di Cana per ricordare il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino e della chiamata di Natanaele: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto sotto il fico». Ma la vera tappa di oggi è Nazaret: il villaggio di Gesù, Giuseppe e Maria. Passando per il mercato arabo, tra bancarelle di frutta e spezie, trovo la bottega di un falegname. Mi affaccio all’entrata e scatto una fotografia. L’uomo dentro sorride e pensa: «Il solito pellegrino».

Una grande basilica è costruita su quella che fu la piccola casa della Madonna. Lì dentro un giorno giunse un angelo: «Ti saluto o piena di grazia». Su quel punto, oggi, c’è un piccolo altare con l’iscrizione: “Verbum caro hic factum est” – il Verbo si è fatto carne qui. All’inizio della messa i seminaristi intonano un canto alla Madonna e il Vescovo trova l’occasione per un simpatico rimbrotto: «Ragazzi non avete capito che non siamo in un santuario mariano? Qui è dell’Incarnazione che si fa memoria: di Dio che si è fatto come noi, per farci come lui». Era il consiglio per il canto giusto. Segnamocelo, per la prossima volta.

BALLERINE, GRATTACIELI E SALARI DA FAME

Viaggio a Shenzhen: la culla del capitalismo cinese
“Ella que-se-ra, she’s livin’ la vida loca / Y te do-le-ra / Si de verdad te toca”. Le note frenetiche di Ricky Martin accompagnano la danza indiavolata di tre ballerini che sgambettano sul bancone del bar. Sono in tre. Lui, capelli a caschetto, veste una tutina rossa anni 70 che avvolge un fisico atletico. Balla tra una bionda e una bruna in minigonne svolazzanti. Sorridono dall’alto agli avventori a testa in su, seduti tra i tavolini illuminati da luce soffusa. “She’s livin’ la vita loca…”. È la notte di Halloween e il ristorante “Romas” di Shenzhen ha organizzato una festa a tema, con tanto di ballerini, streghe e porta candele a forma di zucca. Siamo nel quartiere di Shaokoi, il più occidentale della culla del boom economico cinese. Il proprietario del “Romas” è Ferdi Gerhard, uno zurighese sulla cinquantina che ha fatto affari ad Hong Kong e ora ha aperto questo locale “italiano” che riscuote un certo successo tra gli occidentali accorsi in questa città come in una sorta di corsa all’oro.
Nel 1980 Shenzhen è un piccolo villaggio di pescatori separato da una lingua di mare dai grattacieli e dallo sfarzo di Hong Kong. In quell’anno Deng Xiao Ping decide di istituire, agli albori del passaggio dall’economia stanilista al capitalismo selvaggio, una Zona Economica Speciale (ZES) come laboratorio per un esperimento da estendere a tutto il Paese. La scelta cade proprio su Shenzhen grazie alla sua vicinanza con il cuore del capitalismo orientale: Hong Kong. Da quel momento il villaggio viene ricoperto di capitali statali e in un men che non si dica diventa una delle città più ricche del Paese. Un esempio paradigmatico della velocità del boom è quello del quotidiano della Zona Economica Speciale. Nel 1982, l’anno della sua fondazione, il pugno di giornalisti della redazione lavora in piccolo prefabbricato di pochi metri quadrati. Oggi, 25 anni dopo, quello che è diventato lo “Shenzhen press group” pubblica undici quotidiani e cinque settimanali per un totale di due milioni di copie e dà lavoro a 6200 persone di cui 2000 sono giornalisti. E la redazione? Beh, nel prefabbricato non ci stanno più tutti e la sede principale del gruppo è un modernissimo grattacielo di una cinquantina di piani. Ecco, Shenzhen è questa: una città dove la ricchezza si misura con il numero di piani del tuo grattacielo. Il più famoso di tutti, anche se non è né il più bello né il più alto, viene chiamato “World Trade Tower” tirato su nel 1985 in appena 14 mesi, una media di tre giorni per ogni piano. Ecco, Shenzhen è questa: una città dove la velocità si misura in “giorni per piano di grattacielo”.
Ad avermi portato al “Romas” di Shaokoi è Daniel Frattini. Daniel ha 32 anni, è nato in Corea del Sud, è stato adottato da genitori della svizzera interna (il padre di Zurigo e la madre di Ginevra) e ha sposato una ragazza di Shenzhen. Ora vivono e lavorano qui con una bambina di un anno e mezzo. Si chiama Margot e non avrà altri fratelli a causa della legge del figlio unico. “Questa legge – dice Daniel – sta procurando uno squilibrio tra maschi e femmine in favore dei maschi. L’unico vantaggio è che Margot non avrà difficoltà a trovare marito…”. Sorride. Daniel ha cambiato alcuni lavori da quando è a Shenzhen, ma ora lavora con le agenzie di viaggio svizzere e organizza tour in Cina. “La maggior parte degli imprenditori europei pensa che i migliori affari si facciano a Shanghai, ma pochi sanno che qui a Shenzhen le condizioni fiscali sono molto migliori”. Ci indica un edificio non lontano dal “Romas” dove hanno sede tutte le maggiori aziende petrolifere occidentali che da qui gestiscono gli affari del greggio estratto dalle piattaforme al largo di Hong Kong. “Certo non basta venir qui per fare affari – dice Daniel – occorre essere anche capaci, che storie”. Mi accompagna nella piazzetta centrale di Shaokoi dove da qualche anno un francese ha aperto la “Brasserie Napoleon”. “Si trova in una zona centralissima eppure il locale è sempre vuoto. Si mangia male e il conto è salato. Siamo in Cina, d’accordo, ma queste cose contano anche qui”.
A parte la “Brasserie Napoleon”, il successo dei progetti occidentali in Cina non è mai stato automatico, anzi. Fino a qualche anno fa un imprenditore occidentale che volesse aprire un’attività a Shanghai o Shenzhen doveva trovarsi obbligatoriamente un partner sul posto con cui stringere una joint venture. La parte cinese aveva sempre il 50 più uno delle azioni dell’azienda anche se il know how lo metteva quasi sempre l’occidentale. Ma il gioco non durava molto: una volta acquisito il know how il partner cinese lasciava a piedi la contro parte occidentale che tornava a casa con le pive nel sacco. C’è chi dice, tra gli analisti, che sia accaduto nel 95% dei casi.
Qui chi è sicuro di fare affari d’oro sono le grandi aziende private ma a controllo statale. La sigla ZTE in Svizzera non ci dice niente: si tratta di una delle più arrembanti industrie di tecnologia per le telecomunicazioni dal mondo. Nel 2004 ha avuto un giro di affari di 4,1 miliardi di dollari e un utile di 2,7 miliardi con tassi di crescita da capogiro. Produce telefonini dell’ultima generazione con design da far invidia alla Nokia. I suoi server sono stati utilizzati durante le olimpiadi di Atene e, neanche a dirlo, ha vinto l’appalto anche per quelle che si terranno a Pechino nel 2008. Dà lavoro 21mila persone. Ho fatto un giro nei suoi stabilimenti: perfetti. Pulizia, silenzio, ordine. Otto ore di lavoro cinque giorni a settimana. Nulla da ridire. Peccato che sia l’unica fabbrica che i miei ospiti cinesi, “vagamente” vicini al Partito, mi hanno permesso di visitare. La marcia in più dell’economia cinese, non è un mistero, è la manodopera a basto costo che vive e lavora in condizioni subumane. Stando a una ricerca dall’associazione britannica Impactt, che si occupa di migliorare l’impatto sociale delle grandi catene di distribuzione, la giornata di lavoro media di un operaio cinese dura 14 ore e il suo salario è di 75 euro al mese. Nonostante alcune aziende importatrici, soprattutto americane o britanniche, tentino di combattere gli abusi attraverso un sistema di “certificazione etica” grazie a un libretto di lavoro per gli operai sul quale vengono registrati orari di lavoro e salario, le fabbriche cinesi trovano il modo per falsificare sistematicamente i dati. Nell’arco di tre anni i consulenti di Impactt hanno visitato 100 fabbriche cinesi che forniscono 11 grandi catene di distribuzione che operano in Gran Bretagna, e in nessuna di queste esistevano condizioni lavorative soddisfacenti. Per non parlare della sicurezza sul lavoro: in Cina le morti sul lavoro sono 12 volte più frequenti che in Inghilterra. Nella sola Shenzhen 13 operai ogni giorno perdono sul lavoro un dito o un braccio. Ecco, Shenzhen è questa: una città dove ogni anno ci sono 4700 nuovi mutilati.
Ma la tensione sociale in città sta per far saltare il coperchio e le proteste sono quasi all’ordine del giorno. Lo scorso 6 ottobre 2005 tremila operai di una fabbrica di componenti elettronici, una joint venture tra Hong Kong e Cina, hanno bloccato l’entrata della fabbrica e il traffico nelle strade circostanti per protestare contro il salario di 28 dollari al mese. Il 2 novembre altri 3 mila dipendenti di una fabbrica italiana di divani hanno bloccato l’autostrada per protestare contro le violenze tra tre operai e il datore di lavoro a seguito di una discussione sul salario. Il 6 novembre circa mille veterani dell’Esercito di liberazione popolare hanno marciato per protestare dopo che due ex commilitoni sono stati arrestati durante proteste sempre per i salari. Ma non è solo questione di soldi. Il 19 gennaio 2006, infatti, migliaia di persone hanno manifestato contro la chiusura forzata di alcune decine di bar, discoteche, night club e sale per il karaoke. Le autorità locali, nel contesto di una campagna contro il vizio, hanno accusato la malavita di usare questi locali come copertura per la prostituzione. “Ella que-se-ra, she’s livin’ la vida loca”.

DOVE I CINESI NON HANNO GLI OCCHI A MANDORLA

Viaggio nello Xinjiang patria della minoranza musulmana degli uyghuri perseguitata dal governo di Pechino

A Pechino il sole è sorto già da un paio d’ore quando l’alba illumina i grattacieli di Ürümqi, capitale della regione più ad occidente della Cina: lo Xinjiang. Nonostante tra la capitale e questa periferia dell’impero vi siano due fusi orari di differenza, arrivati all’aeroporto di Ürümqi non occorre spostare le lancette dell’orologio perché su tutto il territorio cinese l’unica ora è quella segnata dagli orologi dei dirigenti del partito di Pechino. Gli uffici aprono alle dieci del mattino e comunque esiste un orario ufficioso che fa corrispondere l’ora alla posizione del sole nel cielo. Quando ci si dà appuntamento occorre dunque intendersi bene a quale dei due orari si fa riferimento. Ma il ritardo dello Xinjiang su Pechino non è soltanto una questione di orari. La più grande provincia cinese (la cui superficie è circa 37 volte quella della Svizzera e la popolazione supera i 16 milioni) è toccata solo in modo marginale dal grande fermento economico che si vive sulle coste orientali non solo nella capitale, ma soprattutto in città come Shanghai o Shenzhen. Qui, a parte i grandi cantieri della capitale Ürümqi, il ritmo è molto più lento e la regione – occupata tra l’altro dal secondo deserto più grande del mondo – è ancora un Paese di contadini.

Ma ciò che più colpisce camminando per le strade di Kashgar, una mitica oasi sull’antica Via della Seta, è – banalmente – che gli abitanti non hanno gli occhi a mandorla. Il 60 per cento della popolazione dello Xinjian, infatti, non è di etnia han, quella maggioritaria nel resto del Paese, ma è formata da uyghuri, musulmani di lingua turca. Qui, praticamente al centro del continente asiatico, gli uyghuri vivono da centinaia di anni assieme a tagiki, kirghisi e uzbeki. Kashgar è molto più vicina a Bushkek, Kabul e Islamabad piuttosto che a Pechino, e si vede. Basta passeggiare per le vie del centro o della città vecchia per accorgesi che, a parte le scritte sui cartelli in mandarino (sempre accompagnate dalla versione turca), c’è poco in comune con la Cina che appartiene all’immaginario collettivo. I volti espressivi degli artigiani di strada, dei fruttivendoli o dei macellai che vendono le loro carni lungo i marciapiedi come avviene nei Paesi arabi danno l’impressione di essere in un altro pianeta rispetto gli sguardi inespressivi di chi affolla i grandi magazzini di stile occidentale di Pechino o Shenzhen. I cappelli con la banda di pelliccia nera incorniciano volti scavati dagli anni passati nelle piccole case riscaldate da stufe a carbone. Eppure siamo nella stessa Cina che fu degli imperatori, di Mao e Deng Xiao Ping, Jiang Zemin e oggi Hu Jintao. Qui si è veramente alla periferia dell’impero e l’imperatore per fare sentirsi sentire deve alzare la voce. Lo dimostra il fatto che nella piazza principale di Kashgar sorga una delle più imponenti statue del presidente Mao mai erette, come dire, “avete capito chi comanda qui?”.

Già, perché nonostante nel 1955 Mao abbia concesso allo Xinjiang lo status di Regione autonoma il potere di Pechino non ha mai allentato la presa. Il motivo è semplice: il sottosuolo dello Xingjiang è ricco di carbone, gas e petrolio che fanno la gioia di Petrochina e Sinopec, le due maggiori aziende petrolifere di Stato cinesi. Dagli anni Cinquanta a oggi il governo ha favorito una massiccia immigrazione di popolazione di han, ufficialmente per contribuire allo sviluppo della regione, di fatto per garantirsi il controllo politico ed economico. Basti dire che nella regione negli ultimi dieci anni gli han sono aumentati del 37 per cento, mentre gli uyghiri – pur non essendo sottomessi in quanto minoranza alla legge del figlio unico – del 17 per cento.
Questo atteggiamento, che non a torto si potrebbe definire “imperialista”, unito a una sempre maggiore discriminazione dell’etnia uyghura ha creato un malcontento crescente che ha sollevato nel migliore dei casi istanze di maggior autonomia.

Tutto nasce dal rapporto travagliato tra governo e religione musulmana. Al turista che si rechi a Kashgar tutte le guide segnalano la visita alla moschea Id Kah, fondata nel 1442 e considerata la più grande e importante della Cina. Il tempio, noto per il suo ingresso monumentale, può ospitare diverse migliaia di fedeli all’esterno e al suo interno l’imam si inginocchia su un prezioso tappeto dopo del presidente iraniano in persona. Secondo un dossier pubblicato l’anno scorso da Human Right Watch dalla metà degli anni Novanta il controllo dello stato sull’islam è passato dalla sola volontà di scegliere gli imam e i responsabili delle comunità a vere e proprie vessazioni sui laici. Secondo i dati raccolti da HRW spesso le moschee sono sotto completa sorveglianza da parte dello Stato con lo scopo di scoraggiare la loro frequentazione da parte dei bambini e dei giovani. Per alcuni studenti e membri dell’amministrazione pubblica è stato impossibile partecipare pubblicamente ad attività religiose diverse dall’osservare il precetto dell’astinenza dalla carne di maiale. Altri cittadini di etnia uyghura hanno perso il lavoro o sono stati arrestati soltanto perché considerati troppo religiosi. Uno degli strumenti utilizzati dal governo per attuare la repressione religiosa nello Xinjiang è quella di approfittare dell’annuale campagna contro la criminalità. Mentre nel resto del Paese l’iniziativa colpisce la criminalità in genere in questa regione è utilizzata per reprimere l’attività religiosa degli uyghuri basandosi sull’assunto che essa serva da copertura per iniziative a carattere separatistico. Per HRW ogni anno nella regione sarebbero migliaia gli arresti per “attività religiose illegali” e nel 2004 il partito comunista ha reso noto che nella prima metà di quell’anno erano stati 22 gli individui o i gruppi coinvolti in “attività terroristiche e separatistiche”. Lo Xinjiang, tra l’altro, gode del primato delle sentenze di morte per crimini contro la sicurezza dello stato dal 1997: per ora sono 200.
Dopo l’11 settembre 2001 Pechino ha approfittato della “guerra al terrorismo” per presentare al mondo i gruppi indipendentisti uyghuri come gruppi terroristici ed è riuscita a far inserire il Movimento islamico del Turkestan orientale (ETIM) sulla lista delle organizzazioni terroristiche delle Nazioni Unite. Alcuni uyghuri sono stati arrestati al fianco dei talebani in Afghanistan, ma in patria dal 1998 non si registrino significative attività militari da parte di questo gruppo. Fatto sta che oggi in Cina “indipendentista uyghuro” è sinonimo di “terrorista”. Incontrando i giornalisti di Tele Kashgar, la tv bilingue (cinese-uyghuro) controllata dallo Stato, alla domanda “Informate delle attività dei gruppi indipendentisti?” la risposta pronta è: “Certo, abbiamo fatto alcuni reportage sui terroristi”. Per le strade di Kashgar e Ürümqi si vedono alcune donne coperte da una sorta di shador azzurro di lana grossa. Dicono che negli ultimi anni questi shador siano aumentati e sarebbe il segno di infiltrazioni di correnti fondamentaliste importate dai vicini Pakistan e Afghanistan. Tuttavia la preoccupazione degli uyghuri non sembra essere la religione in sé, quanto piuttosto la percezione di una minaccia alla propria identità di popolo e un sentimento crescente di essere colonizzati dai cinesi di Pechino. Essi vedono nelle restrizioni poste dal governo alla loro religione un tentativo indebolire la loro identità, la loro cultura la loro tradizione di uyghuri .
L’amministrazione dello Xinjiang ha inaugurato lo scorso ottobre a Ürümqi la nuova sede del “museo delle nazionalità” dove, in una struttura monumentale, il visitatore è introdotto in un percorso per conoscere le numerose etnie che convivono nella regione. In uno dei primi pannelli della mostra si legge: “Tra il I secolo a.C e il III secolo d.C tutte le nazionalità dello Xinjinag hanno vissuto basandosi sul proprio lavoro diligente, costruendo dimore bellissime, promuovendo lo sviluppo dell’agricoltura e l’allevamento, sviluppando l’artigianato, il commercio e la comunicazione contribuendo così al progresso della società”. Insomma: è dalla notte dei tempi che qui si vive in modo pacifico, perché smettere proprio adesso?
Il sole cala presto sull’orizzonte dello Xinjiang, quando a illuminare le strade di Pechino sono già i lampioni. Ma fusi orari a parte, la notte della speranza del popolo uyghuro dura 24 ore su 24.