LUCI DELLA CITTÀ. LE MAQUETTES/LIGHTS DI NAOYA HATAKEYAMA

Altro acquisto mancato ad Art Basel. Le Maquettes/Lights di Naoya Hatakeyama. Questo è il classico caso in cui è pressoché impossibile riprodurre l’effetto della visione dal vivo di un’opera. Fatevi aiutare un po’ dalla fantasia, in questo caso può essere sufficiente.

Lo stesso Hatekeyama spiega così la genesi di queste immagini: «Ho fotografato l’illuminazione urbana della città. Quando guardavo la stampa sviluppata, sentivo che mancava qualcosa. Allora ho messo la stampa in una light box. L’intera stampa diventava grigia. Ho pensato: «Così non va». Ho stampato la stessa immagine su una pellicola trasparente e l’ho attaccata sul retro della stessa stampa. In questo modo venivano illuminate solo le parti dell’immagine in cui apparivano le fonti di luce . Certo, è ovvio che accadesse così, ma non avevo mai realizzato questo. Si tratta semplicemente di una tautologia del reale, in cui le caratteristiche della fotografia, di conversione e la metafora sono delegittimate. Ho pensato che non potevo non intitolarle “Maquette”, modelli».

L’effetto è sorprendente. Innanzitutto perché l’effetto non si nota. Cioè, al primo sguardo non ci si accorge di quello che sta accadendo: non si realizzata che si tratta di light box. Ci si stupisce soltanto dell’effetto realistico. I lampioni fotografati sembrano davvero produrre luce. Un trucco, una magia. Banale? Forse proprio per questo molto poetica.

Naoya Hatakeyama, “Maquettes/Light”, 2009

Naoya Hatakeyama, “Maquettes/Light”, 2009
Naoya Hatakeyama, “Maquettes/Light”, 2009

NAN GOLDIN E LA SUA SCOPOFILIA (DAL GRECO)

Nan Goldin, Chimera, 2013, Scopofilia
Nan Goldin, Chimera, 2013

Se non mi fossi dimenticato il portafoglio a casa, sarei uscito da Art Basel con queste due opere di Nan Goldin. Fanno parte di una serie di immagini intitolata Scopofilia (= amore per la visione) In mostra fino alla settimana prossima alla Matthew Marks Gallery di Los Angeles. È un lavoro commissionato alla grande fotografa americana dal Louvre. Qui il comunicato stampa che dice tutto. Qui altre immagini.

A me pare che la Goldin attraverso questa giustapposizione di opere storiche e proprie fotografie ci dia come un “libretto di istruzioni” per rileggere la sua opera precedente. A dispetto dei temi, lo sguardo di Nan è uno sguardo classico, pittorico. L’uso della luce e l’attenzione al corpo sono quelle della tradizione. Poi ci sono le botte, il sesso, la droga, l’alcool, il sesso (l’ho già detto), ma il modo di guardare – forse, ma qui sembra proprio essere così – è lo stesso.

Nan Goldin, Shroud, 2013, Scopofilia
Nan Goldin, Shroud, 2013

RYAN MCGINLEY LASCIA INDIETRO TUTTI

Ryan McGinley, Somewhere Place, 2011

Ryan McGinley, Sly Fox, 2011


Ryan McGinley è un fuori classe. Ad ArtBasel la Allyson Jacques Gallery di Londra ha portato queste due fotografie. Impossibile non notarle. Tornato a casa ho pensato che da qualche parte dovevo aver visto qualcosa di simile. Sì, l’avevo già visto al Frieze dell’anno scorso ed era perfino finito in un mio post di “cartoline”. Queste due opere sono del 2011, ma McGinley nonostante sia del ’77 ha alle spalle una decina di anni di onorata cariera. La sua storia la spiega bene questo articolo del 2007 del New York Times ed è molto simile, forse non è un caso, a quella di un altro grande: Wolfgang Tillmans.
Il suo lavoro ruota tutto attorno al volto e al corpo umano. Sono immagini di un un vitalismo, sincero e allo stesso tempo raffinato, che non ritrovo in nessuno della sua generazione e forse neanche in quella precedente. Ecco, forse ha preso il testimone del primo Tillmans che con lui condivide la passione per la figura umana. In Italia non si è ancora visto ma negli Stati Uniti gode di una grande successo se è vero che a soli 24 anni ha realizzato una personale al Whitney Museum e l’anno scorso la Levi’s gli ha chiesto di realizzare la sua campagna pubblicitaria. La foto qui sotto, invece, in Italia è stata usata da Mondadori come copertina per il romanzo di Francesco Bianconi (il leader dei Baustelle).

Ryan McGinley, India (Coyote), 2010

Ma la cosa che più stupisce è la versatilità di questo artista che riesce a cimentarsi con il ritratto (bella questa serie sui vincitori degli Oscar del 2007) e lasciare senza parole quando punta l’obiettivo al cielo stellato.

Ryan McGinley, Night Sky (Pine), 2010

I PEZZI UNICI DI RICHARD LEAROYD

Richard Learoyd - Agnes in Striped Dress 2007
Agnes in Striped Dress, 2007, unique Ilfochrome print, 172.7 x 121.9 cm

Richiard Learoyd - Agnes Nude 2007
Agnes Nude, 2007, unique Ilfochrome print, 172.7 x 121.9 cm

Richiard Learoyd - Men's Back 2008
Men's Back, 2008, unique Ilfochrome print, 172.7 x 121.9 cm

Richard Learoyd - MAEKE 2007
MAEKE, 2007, unique Ilfochrome print, 172.7 x 121.9 cm

È stata una delle scoperte della puntata ad Art Basel. Sono le maestose immagini del fotografo inglese Richard Learoyd. Strabordano di delicata eleganza. Sono ritratti a grandezza naturale, ottenuti grazie a una tecnica d’altri tempi: un obiettivo dell’800 per ritratti, una stanza al posto del corpo della macchina fotografica, e fogli Ilfochrome invece della pellicola. Di fatto l’immagine viene impressa direttamente sui grandi fogli di carta sensibile che viene sviluppata senza il tramite di un negativo, il che rende la singola fotografia un pezzo unico, quasi fosse una polaroid gigante.
Al di là della perizia tecnica, il risultato è davvero straniante. L’occhio si perde nei dettagli ad alta definizione e nei profondi fuori fuoco ai bordi dell’immagine. Qui sopra ce n’è qualcuna come esempio, ma ora che vedo quanto poco rendono a video mi viene una gran malinconia di non potervele mostrare in tutta la loro bellezza.
Sul l’ultimo numero di Aperture c’è una bella intervista di Peggy Roalf a Learoyd nel quale il fotografo parlando delle sue immagini dice:

“I see my work more in the lineage of the French – referring to daguerreotypes: those nonreproducible photographic objects whose multiplaned surface and miraculous depth of field facinate me. With my work I am interested in the moment when the image becomes dye and color, when the illusion of it being a reflection or projection breaks down. I think you get that sense with the daguerreotype images: you see the object before the illusion. With my pictures, the illusion is very strong and breaks suddenly, and often momentarily, which is something i like”.

SONO ANDATO AD ART BASEL CON L’IPAD


Sono andato ad Art Basel con l’iPad. Nel senso che la sera prima di partire ho scaricato l’applicazione della grande fiera svizzera su App Store e ci ho giocato durante il viaggio verso Basilea.
È certamente uno strumento interessante: si può guardare la cartina della fiera in 3D capendo il posizionamento delle gallerie, ma soprattutto c’è un motore di ricerca per gallerie e per artisti che permette di trovare il posizionamento di quel che cerchi sulla cartina.
Ad esempio: volevo vedere le opere di Tillmans e in pochi secondi ho scoperto dove si trovavano.
Alla fine però è stato necessario munirsi della vecchia mappa cartacea che riportava la numerazione della gallerie, senza la quale era pressoché impossibile orientarsi. Le gallerie trovate con l’iPad le ho cerchiate a penna sulla mappa cartacea, cosa impossibile da fare sullo schermo del giocattolo di Apple.
Questo per dire che iPad non basta ma aiuta.