DA UNA LETTERA DI ROBERT ADAMS AD ANSEL ADAMS

Moonrise on San Hernandez, Ansel Adams, 1941
Moonrise on San Hernandez, Ansel Adams, 1941

“Bene… ciò che voglio dirle è che le sono grato per le sue immagini che mi hanno spesso salvato dalla disperazione… nei tempi bui, uno desidera sapere se ha davvero vissuto in modo più puro. La forza delle sue immagini conferma che quel mondo è esistito e testimonia che è eterno, malgrado ciò che succede di fuori, di fronte a noi, in questo momento”.

Robert Adams, 26 giugno 1979

ROLAND BARTHES, LA FOTOGRAFIA E LA RISURREZIONE


“La Fotografia non rimemora il passato (in una foto non c’è niente di proustiano). L’effetto che essa produce su di me non è quello di restituire ciò che è abolito (dal tempo, dalla distanza), ma di attestare che ciò che vedo è effettivamente stato. Ora, questo è un effetto propriamente scandaloso. Sempre, la Fotografia mi stupisce, ed è uno stupore che dura e si rinnova, inesauribilmente. Forse questo stupore, questa caparbietà, affonda le sue radici nella sostanza religiosa di cui sono imbevuto; niente da fare: la Fotografia ha qualcosa a che vedere con la risurrezione: forse che non si può dire di lei quello che dicevano i Bizantini dell’immagine di Cristo di cui la Sindone di Torino è impregnata, e cioè che non era fatta da mano d’uomo, che era acheiropoietos?”

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“Io sono il punto di riferimento di ogni fotografia, ed è per questo che essa m’induce a stupirmi, ponendomi l’interrogativo fondamentale: perché mai io vivo qui e ora? Certo, più di altre arti, la Fotografia pone una presenza immediata al mondo – una co-presenza; questa presenza non è però solo di ordine politico (“partecipare attraverso l’immagine agli avvenimenti contemporanei”), ma anche di ordine metafisico. Flaubert si beffava (ma si beffava poi veramente?) di Bouvard e Pècuchet che s’interrogavano sul cielo, sulle stelle, sul tempo, sulla vita, sull’infinito, ecc. Questo è il genere d’interrogativi che la Fotografia mi pone: interrogativi che rientrano nella sfera di una metafisica “stupida”, o semplice (ad essere complicate sono le risposte): probabilmente la vera metafisica”.

(Roland Barthes, “La camera chiara”, p.83-84, Einaudi)

GABRIELE BASILICO E IL VENTO DI MILANO

“Per essere ancora più precisi, il progetto inizia esattamente nel weekend di Pasqua del 1978. (…) La città era semideserta e un vento straordinariamente energico aveva ripulito l’orizzonte: era una giornata di luminosità eccezionale, uno di quei rari giorni che stupiscono i milanesi perché “si vedono così bene le montagne che sembra di poterle toccare con la mano”. Il vento, quasi assecondando una tradizione letteraria, sollevava la polvere, metteva agitazione nelle strade, puliva gli spazi fermi, ridonando plasticità agli edifici, rendendo più profonde le prospettive delle strade in una sorta di maquillage atmosferico che permetteva alla luce di proiettare con vigore e nettezza le ombre degli edifici.
Per la prima volta ho “visto” le strade e, con loro, le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide, nette e isolate su un cielo inaspettatamente blu intenso, grazie al quale la visione consueta delle forme diventava improvvisamente inusuale. Ho potuto vedere così, come se non l’avessi mai visto prima, un lembo di città senza il movimento perpetuo quotidiano, senza le auto in sosta, senza persone, senza suoni e rumori. Ho visto l’architettura riproporsi nella sua essenza, filtrata dalla luce, in modo sorprendentemente scenografico e monumentale”.

Gabriele Basilico, “Architetture, città, visioni – Riflessioni sulla fotografia”, Bruno Mondadori, 2007, pag. 24.

ROBERT ADAMS SAYS YES

Robert Adams (1937) è considerato un maestro della fotografia americana. Quest’anno l’università di Yale gli dedicherà un libro e una retrospettiva che girerà l’America e l’Europa. Di seguito riporto un brano dell’intervista che Joshua Chuang, il curatore per la fotografica di Yale, gli ha fatto sull’ultimo numero di Aperture.

JOSHUA CHUANG: You wrote in 1977, in the introduction to denver, that the city’s inhabitants “partecipate in urban chaos” but are themselves “admirable”. Do you still believe this?

ROBERT ADAMS: I’d probably be more specific about the people I endorse. And inclined to note the tragic nature that we all have in common. In a recent Paris Review interview the writer Marilynne Robinson was asked if she worried about being too pessimistic. Her reply was “I worry that I’m not pessimistic enough”. I share that feeling. Although neither she or any artist is without hope. If they were, they wouldn’t bother.

JOSHUA CHUANG: Dorothea Lange once said that she hoped that generation of photographers following hers would focus on the American city and what happening in the suburbs. Is there a particular subject you’d like to see the next generation take on?

ROBERT ADAMS: What she wanted still seems right, but it remains a tall order. One of the things that I most hope to find when I speak with young photographers is a readiness to ask almost impossible things of themselves, the sort of things that demand three or four years and that might result in fifty or seventy-five pictures of an important, life-size subject. I want to repeat to them Miguel de Unamuno’s blessing: “May God deny you peace but give you glory”.
Let me add one thing that might at first seem at odds with my wanting to toughen up Summer Nights – that the goal of art is affirmation. Of course if you get affirmation on the cheap it can be easy dismissed, which is why I wanted Summer Nights to be more than a record of childhood innocence. But the purpose of art is, in the end, to find beauty, and by that share an intuition of promise.
This past spring there was a show titled Into the Sunset at the Museum of Modern Art in New York. It was about phography’s picture of the American West, and thought I didn’t see the exhibition I did study the catalog. It raised an important problem that confronts everybody, East and West. On the one hand there were landscapes, the more recent of which, my own included, documented worn, abused places. Together with these views there were pictures of people, and the more recent of the seemed, in the main, to be portraits of the lost. The issue raised by the show seemed to be whether are affirmable days or places in our deteriorating world. Are there scenes in life, right now, for which we might conceivably be thankful? Is there grounds now and then for an un-ironic smile?
Every artist and would be artist should, I think, recognize a responsibility to try, without lying, to answer those questions with a yes.

GIANNI BERENGO GARDIN FA “NAME DROPPING”


“Si è perso molto di quel che è la cultura dell’immagine e del passato, imprescindibile per chi vuole fare fotografia. Sono noti i grandi nomi, in primis Cartier-Bresson, ma altri grandi fotografi non sono affatto conosciuti. Da Paul Strand a molti della scuola francese, non solo Doisneau ma anche Boubat o Willy Ronis.
È nota Dorothea Lange, ma non tutti i fotografi di Life, è famosissimo Capa ma non Gordon Parks. Tra gli altri nomi che suggerisco di approfondire (alcuni praticamente sconosciuti) ci sono Margaret Bourke-White, Walker Evans, Erich Solomon, Lee Miller, Bill Brandt, Charles Sheeler, Cristina Rodero, Felix H. Man (sconosciutissimo, e pensare che Henry Cartier-Bresson ha detto di aver imparato tantissimo da lui), e Tony Ray Jones, uno degli eccezionali fotografi inglesi, purtroppo scomparso giovane”.

Gianni Berengo Gardin in un’intervista a “Tutti fotografi”, dicembre 2009.

LA GIUSTA DISTANZA

“La mia strada è: non stare troppo vicino, troppo addosso alle cose altrimenti la protagonista non è più la realtà, ma il dettaglio; non stare troppo lontano perché l’immagine perde forza. Quando lavoro mi sembra di essere un rabdomante alla ricerca del punto giusto dove fermarmi e guardare le cose da lì. Non mi importa di fare una delle 100 foto che mi colpiscono di più, il mio è uno stile narrativo. La distanza è la metafora del rapporto con la realtà, bisogna saper guardare il lontano, sfiorare lo stordimento, identificare il luogo in cui immergi il tuo tempo”.
Gabriele Basilico sul Corriere di ieri