Come Giona, Pinocchio o il capitano Achab? Che cos’è questo gigantesto mostro che Anish Kapoor ha imprigionato dentro la gabbia del Grand Palais? È il provvidenziale pesce biblico, la simpatica balena di Collodi o il feroce capodoglio di Melville? È lecito chiederselo, anche se la risposta non è necessaria per addentrarsi nel fascino di questa opera riuscitissima. “Leviathan” di Kapoor è un’apparizione misteriosa e travolgente. È lì innanzitutto: grande e enigmatico. Come molte cose che della vita non ci spieghiamo e eppure ci sono e la ingombrano e sembrano sovrastare i confini dell’esistenza. Certe paure, certe bellezze, certe insensatezze o amori travolgenti.
Non è la sua prima opera a carattere epico, anche se forse si tratta della più grande con i suoi 33metri di altezza e i 100x72metri di ampiezza. Ma più delle dimensioni colpisce, e questa secondo me è una cifra decisiva dello stile di K., la sproporzione dell’opera rispetto al suo contenitore. Qui il Grand Palais appare in tutta la sua piccolezza (!!), sembra volersi far più largo per il disagio che gli procura questa ingombrante presenza. A temperare l’aggressività del tutto è forse l’eleganza cromatica soprattutto dell’esterno (l’interno è un vero e proprio rosso sangue) dove il color melanzana si abbina benissimo, anche se in modo acrobatico, al verde salvia della struttura e il giallo delle ringhiera del Gran Palais.
Due parole invece sulle due esposizioni kapooriane a Milano. Quella della Rotonda della Besana è bellissima e la Rotonda ci mette molto del suo. “My Red Homeland” è inquietante come tutti i lavori in cera rossa, mentre gli specchi sono di una perfezione che fanno chiudere un occhio sulla deriva ludica che potrebbero prendere. Ma la visita a Parigi mi ha fatto capire tutti i limiti, invece, di “Dirty Corner” alla Fabbrica del Vapore. Innanzitutto va detto che “Dirty Corner” è il progetto che in un primo momento Kapoor voleva realizzare per Parigi. Ma era evidente che non avrebbe funzionato. Il problema è che non funziona neanche a Milano perché non riesce ad entrare in rapporto con lo spazio nel quale è collocato. Non c’è quel senso claustrofobico che suscita un’opera che se fosse stata un pochino più grande avrebbe sfondato pareti e soffitto. Il gioco della camminata al buio (coinvolgente, ma già visto alla Turbin Hall della Tate con l’opera di Miroslaw Balka nel 2009) non giustifica un investimento di forze di questo genere.
L’ultima cosa è: ha ragione o no Francesca Bonazzoli che sul Corriere scriveva che Anish Kapoor è l’artista dell’establishment, molto spettacolare e per nulla scomodo? Per nulla scomodo non direi, la cera rossa non è innocua: è un’immagine lacerante. Da establishment? Beh, questo forse sì. Ma è come rimproverare a Kapoor di essere un artista di successo.
Hai detto quel che c’era da dire, bene. Il giallo del grand palais è senape, però.
beh sì, aveva ragione laura nel post precedente a dirti che le foto meritavano a colori.
Secondo me la Bonazzoli ha ragione , non gli vuole rimproverare il successo ma al di là dell’ evidente grandiosità che di certo può essere impressiv c’è un eccesso di patinato , tutto ben confezionato con garbo , condito con un pò di misticsmo para indiano o giù di lì …. comunque a Parigi non sono stato ma gli specchi della Besana sono perfetti anche per il salone del mobile …
che invidia Luca, spettacolare. si capisce perfettamente che merita il viaggio. condivido in pieno il tuo articolo. credo che kapoor abbia la capacità da bravo artista di condurci verso l’assoluto al pari di un dipinto di rothko o un’icona di rublev. “misticismo indiano” mi pare riduttivo. c’è fin troppa arte che si occupa di contenuti insignificanti, riduttivi o cervellotici e in pessime forme. come si può negare che lui si occupi dell’aspetto più interessante della realtà e in una forma impeccabile?! ricordo ancora una delle sue sculture – se vogliamo “piccole” e quindi non d’impatto scenografico – presenti alla mostra in-finitum a Venezia due anni fa (Palazzo Fortuny). in così “poco” una realtà concreta fatta di infinito… insomma non è di questo che noi artisti ci occupiamo?