PASQUA NELLA TERRA DEGLI SCEICCHI/2


Dal Giornale del Popolo del 22 marzo 2008

Abu Dhabi. Unaver è un ragazzo malese di 21 anni. È arrivato ad Abu Dhabi poco più di un anno fa per lavorare come cuoco in uno dei tanti alberghi della città. Questa notte, alla veglia di Pasqua, riceverà il battesimo. Sì, perché se è vero che nei Paesi del Golfo è severamente vietato il proselitismo nei confronti dei musulmani, nulla vieta a un non musulmano di domandare di diventare cattolico. Sembra quasi impensabile, ma sono molte le persone che scoprono la fede proprio qui, nella terra degli sceicchi e dell’Islam. Unaver, per la verità, proviene da una famiglia cattolica che per mille ragioni non lo ha fatto battezzare quando era un neonato. A dodici, tredici anni Unaver prova a frequentare il catechismo nelle Filippine ma, lui che le preghiere le aveva imparate solo in inglese, non ha voglia di impararle di nuovo in filippino. Nel frattempo la madre si converte all’Islam, ma non forza il ragazzo a diventare musulmano. Ma arrivato ad Abu Dhabi la vita si fa dura: il lavoro in cucina è stressante, non conosce quasi nessuno. Viene preso dalla noia e dalla tristezza. Poi un giorno un amico lo porta alla Messa di padre Muthu, il parroco della Saint Joseph’s church di Abu Dabhi. In lui scatta qualcosa. La seconda volta ci torna da solo. «Ho incominciato a sentirmi più in pace e ho chiesto a padre Muthu di iniziare il catechismo per ricevere il battesimo». Perché non hai scelto la religione di tua madre? «Per la libertà e poi perché, qui, i miei peccati possono essere perdonati». Insieme a Unaver questa sera alla Veglia di Pasqua riceverà il battesimo anche Tong Wang, una giovane hostess cinese. «Fin da piccoli – racconta Wang – il Governo cinese ci insegna che Dio non esiste e che non c’è nulla dopo la morte. Un giorno di dieci anni fa, però, sono capitata per caso in una chiesa dove stavano leggendo un racconto della Bibbia. Era il racconto del figliol prodigo: non avevo mai sentito qualcosa di simile e rimasi molto colpita. Poi sono andata a vivere in Malesya dove alcune mie amiche frequentavano una chiesa. Ho cominciato ad andarci anch’io». Wang, però, si trasferisce in Australia dove decide di entrare nella Chiesa anglicana. «Il problema degli anglicani – racconta – è che loro riconoscono la Madonna come madre di Dio, ma non la pregano. E questo, per me, è un di meno». Per questa hostess cinese la preghiera è diventata importante: «È davvero un sostegno per la propria vita. Sai che c’è qualcuno in cui puoi confidare. Io, ad esempio, prima di ogni decollo mi faccio il segno di croce e prego per me e per tutti i passeggeri». Wang non è l’unica cinese che ha scoperto la fede negli ultimi anni negli Emirati Arabi. Leonina, una filippina molto attiva nella vita della parrocchia, racconta di esser stata madrina di battesimo di una signora emigrata per lavoro dalla Cina. «Spesso la gente chiede il battesimo perché vuole sposare un cattolico e ho chiesto la stessa cosa anche a lei. Mi ha risposto subito di no. Lavorava al Duty Free dell’aeroporto di Abu Dhabi, i suoi colleghi erano tutti cattolici filippini e vedeva in loro qualcosa che lei non aveva. Allora ha voluto sapere che cosa li rendesse così umani nel lavoro. E ha chiesto il battesimo».

PASQUA NELLA TERRA DEGLI SCEICCHI/1


Dal Giornale del Popolo del 22 marzo 2008

Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti). «Oggi le funzioni del Venerdì Santo sono tredici, sabato sera abbiamo un’unica grande veglia, poi la domenica di Pasqua abbiamo diciannove messe in dieci lingue diverse: inglese, arabo, filippino, cingalese, tamil, urdu, malese, konkani, francese, taliano, spagnolo, polacco e tedesco». No, non siamo a Roma nella Basilica di San Pietro, siamo ad Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti, nella chiesa di San Giuseppe. A parlare è il parroco indiano padre Muthu che in questi giorni, aiutato da un pugno di sacerdoti, cerca di far andare tutto per il verso giusto. Il piazzale della chiesa era pieno già per il Giovedì Santo, saranno state almeno diecimila persone. Per le funzioni della Passione del venerdì la folla era di almeno 30mila persone. Per questa sera alla veglia di Pasqua se ne prevedono altrettante.
«Accade tutti gli anni – spiega il vescovo Paul Hinder – e ogni volta che qualcuno dall’Europa viene qui, mi confida che finché non lo vedi con i tuoi occhi non ci credi». Accadono queste cose nel Vicariato apostolico della Penisola Araba, di cui il cappuccino turgoviese mons. Paul Hinder è responsabile dal 2005. È la diocesi più estesa del mondo: comprende oltre gli Emirati Arabi Uniti anche il Qatar, l’Oman, il Bahrein e lo Yemen e l’immensa distesa dell’Arabia Saudita. Si stima che i cristiani siano circa due milioni in tutto il vicariato e, naturalmente, nessuno di loro è indigeno: sono tutti immigrati da una settantina di nazioni diverse. La stragrande maggioranza sono indiani e filippini, ma anche moltissimi indonesiani, africani, europei e nordamericani. Sono venuti qui in cerca di fortuna, ma non tutti l’hanno trovata. La maggior parte spera di tornare in patria appena riuscirà a risparmiare abbastanza denaro per vivere dignitosamente. Ma negli ultimi anni il costo della vita negli Emirati Arabi è aumentato esponenzialmente e moltissimi lavoratori e operai faticano a pagare l’affitto per una camera dove abitare. In questo modo il sogno del ritorno si trasforma in miraggio, che appare magari mentre si sta costruendo un’autostrada a quattro corsie in mezzo al deserto.
È appena finita la celebrazione del Giovedì Santo ad Abu Dhabi e le migliaia di persone lentamente abbandonano il sagrato della chiesa. Sono arrivati in macchina, in taxi o in pulmini organizzati. George, un amico del parroco, mi fa salire sul suo fuoristrada. Domando: «Dove andiamo? ». Mi risponde: «Andiamo a trovare quelli che non avevano i soldi per venire in Chiesa oggi». È già buio e le luci dei grattacieli del centro della città si allontanano all’orizzonte. L’auto percorre una quarantina di chilometri, arriva in località Mussafa e si ferma in un parcheggio buio. Entriamo dentro un cancello e George incomincia a raccontare: «Vengo da Kerala, in India, e questa è la mia officina da meccanico di auto». Accanto all’officina, George mi mostra uno stanzone . «Qui veniamo per incontrarci e per pregare. L’unica chiesa in tutto l’emirato di Abu Dhabi è quella di San Giuseppe, ma chi non può arrivare fino a lì, si ritrova in questo salone». Sono indiani di Kerala, lavorano duro per un pugno di soldi fino alle sei di sera. Poi vengono qui, anche perché vivono in piccole camere che ospitano anche sette o otto persone, in complessi non molto differenti – fatta eccezione la tv satellitare – a campi di concentramento. «Questa gente è sola, vive in condizioni davvero precarie e lo sconforto è sempre dietro l’angolo.
Noi diamo ospitalità a questa gente e gli offriamo un modo per approfondire la loro fede e trovare la forza per tirare avanti». Ma non è vietato radunarsi per pregare al di fuori della Chiesa? «È possibile ritrovarsi privatamente, e questo è un luogo privato e – aggiunge sorridendo – molto ben insonorizzato». Qualcuno si lamenta per la vostra presenza? «Sì, qualcuno si lamenta perché non vuole che i cristiani si riuniscano, ma io ho l’autorizzazione del mio datore di lavoro che è musulmano, della polizia locale e del vescovo. Quindi che si lamentino pure, noi andiamo avanti tranquilli».
Salvador e Agnes sono invece una coppia di filippini; passeggiano per il sagrato dandosi la mano. Lui è arrivato qui per lavoro 23 anni fa. Erano già sposati ma lei ha dovuto aspettare 12 anni per raggiungerlo. «È stato un vero incubo – ricorda Salvador – grazie a Dio abbiamo incontrato il gruppo Couples for Christ». Si tratta di un movimento nato nelle Filippine per aiutare, attraverso un’esperienza di fede, le coppie in difficoltà per ragioni di immigrazione. «Nelle Filippine – racconta Agnes – si dice che il Medio Oriente è la tomba del matrimonio». Per rendere l’idea ad Abu Dhabi, solo i membri delle Couples for Christ sono 1200. In tutti gli Emirati sono 4000. Cristiani che aiutano altri cristiani e che, nel Paese degli sceicchi, vivono da cristiani. Discreti e silenziosi. Senza campane o croci fuori dalle chiese. Ma sempre lì, ostinatamente presenti.

LA CATTEDRALE NEL DESERTO


Da Avvenire del 16 marzo 2008

Doha (Qatar). È una Cattedrale nel deserto, in senso letterale. Eppure non rimarrà una «Cattedrale nel deserto» in senso figurato. È la chiesa di «Nostra Signora del Rosario» che è stata consacrata ieri nella periferia di Doha, capitale del Qatar. Erano 14 secoli che nel Paese non veniva inaugurato un luogo di culto ufficiale non musulmano, e l’avvenimento di ieri segna una tappa storica della presenza della Chiesa cattolica nei Paesi della Penisola Araba. Per l’occasione è giunto a Doha il cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, che ha presieduto un’affollatissima celebrazione con oltre 6000 fedeli. Presenti il vicario apostolico d’Arabia, il cappuccino svizzero Paul Hinder, il suo predecessore monsignor Bernardo Gremoli, il nunzio apostolico in Kuwait Mounged El-Hachem, l’emerito monsignor Giuseppe De Andrea e il vicario apostolico del Kuwait Camillo Ballin. All’assemblea, formata soprattutto da immigrati provenienti da una trentina di diverse nazioni ma in particolare da India e Filippine, il cardinale Dias ha portato il saluto e la benedizione di Benedetto XVI e ha ringraziato il sovrano del Qatar, l’emiro Sheikh Hamad bin Khalifa al Thani, che ha concesso il terreno sulla quale è stata costruita la chiesa. «Gesù Cristo – ha detto il cardinale Dias – è la pietra angolare dell’edificio spirituale del cristiano. Dunque, la bellezza esteriore di questa nuova chiesa deve rivelare la dignità che il fedele porta nel suo cuore.
L’edificio della chiesa è come un vestito che adorna i mistero nascosto dei cristiani».
Mistero nascosto che in Qatar si esprime in una presenza laboriosa e discreta che conta circa 140 mila cristiani.Vengono dal Tamil Nadu, dalle Filippine, ma anche dal Pakistan, dalla Corea dal Kenya. Ma l’atmosfera che si respirava ieri nella nuova chiesa di Doha si potrebbe definire multietnica o multiculturale. Forse cosmopolita.
Ma la parola esatta l’ha usata un commosso monsignor Hinder: cattolica. «Oggi – ha sottolineato – abbiamo fatto di nuovo esperienza di cosa sia la cattolicità della Chiesa». Oltre alla chiesa il nuovo complesso parrocchiale offre spazi per la vita comunitaria. Attorno all’edificio principale, che conta 2400 posti a sedere, sorgono edifici per ospitare i bambini del catechismo e i tanti gruppi delle varie nazionalità e riti. Alla Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia del 2005, ad esempio, erano un’ottantina i parrocchiani di Doha. Il parroco, il filippino padre Tom Veneracion, è affiancato da altri cinque sacerdoti francescani che lo aiutano a celebrare le Messe in 14 lingue diverse. Una vitalità straordinaria, che ha spinto monsignor Hinder a confidare al termine della consacrazione: «L’ultima volta che l’ho incontrato, ho detto al Papa che non cambierei mai la comunità che mi è stato dato di seguire»

LITUANIA: NON È UN PAESE PER VECCHI MA I GIOVANI SE NE VANNO

Dal Giornale del Popolo del 27 giugno 2007

La città vecchia di Vilnius è un gioiellino per turisti con la macchina fotografica al collo. Sembra l’abbiano finita di costruire ieri, in realtà è lì da secoli. I palazzi settecenteschi e ottocenteschi sono stati tutti tirati a lucido grazie a una massiccia iniezione di capitali freschi freschi. La città vecchia di Vilnius è un pullulare di locali alla moda, pub e ristoranti. La sera la gente gira fino a tarda ora: giovanotti trendy e professionisti vestiti bene. Ovunque quell’ordine e quella pulizia che l’immaginario comune associa alla Svizzera. La città vecchia di Vilnius è la vetrina della nuova Lituania, quella che nel 2004 è entrata, d’un sol colpo, nella NATO e nell’Unione europea. E come in una vetrina c’è di tutto il meglio: ristoranti, alberghi, centro commerciali. Il municipio ha persino un piano di espansione in grande stile che ha trasformato la capitale lituana in grande cantiere. Vilnius, non c’è che dire, è una città proiettata verso il futuro.
L’economia tira e negli ultimi anni la crescita si è assestata tra il 7 e il 10 per cento del PIL. Merito, certo, dell’entrata nell’Unione europea, che ha regalato al Paese non solo i ricchi finanziamenti di Bruxelles ma anche la consapevolezza di essersi lasciati finalmente alle spalle i giorni bui, quando a comandare erano gli invasori, i russi.
Soprattutto dopo l’11 settembre, il Paese è diventato una meta per gli investitori stranieri in cerca di mercati alternativi. Nella regione di Klaipeda, sulle rive del Mar Baltico, fanno affari anche gli svizzeri che, in alcuni casi, si sono portati a casa il 20 per cento di quello che avevano investito. Insomma, per ora, la Lituania non ha tradito chi è venuto qui per fare affari. Per aumentare l’attrattività verso le industrie straniere si sono perfino inventati, sempre a Klaipeda, una Free Economic Zone (FEZ). Ad appena 2 km dal porto commerciale uno spazio di 22 ettari dove impiantare il proprio stabilimento a condizioni vantaggiosissime: per chi investe almeno un milione di euro niente tasse per i primi 5 anni, metà del dovuto per il successivo decennio. A questo si aggiunge la disponibilità di manodopera lituana a prezzi competitivi. Inaugurata nel 2002, oggi la FEZ ospita gruppi danesi, giapponesi, irlandesi, austriaci e indonesiani. Ma sulla sponda lituana del Mar Baltico non si fanno solo affari: il mare è sempre il mare e anche la Lituania ha la sua Riccione che si chiama Palanga. A Palanga la gente viene anche dai Paesi vicini d’estate per far vita da spiaggia e alberghi, pub e locali notturni cercano di non perdere il treno della rinascita del Paese.
Fin qui la Lituania da cartolina, quella patinata che invade i dépliant turistici e le brochure per gli investitori. Poi c’è quell’altro paese, quello – e sono gli stessi uffici turistici a spiegarlo – che ancora oggi lotta contro postumi della terribile sbronza dell’invasione sovietica.
A Vilnius, dietro il modernissimo centro commerciale “Europa”, sormontato da un grattacielo tutto acciaio e specchi, c’è un quartiere fatto di catapecchie di legno risparmiate dall’avanzata delle ruspe post-sovietiche. Lì la gente trascorre gli inverni a meno venti, e quando piove è costretta ad attraversare le fangose strade non asfaltate. Qui, in pieno centro, incomincia la grande periferia che circonda il cuore di Vilnius e che si estende per tutto il territorio lituano. Sì perché, fatta eccezione per alcuni centri importanti come Kaunas o Klaipeda, il resto della Lituania è ancora troppo occupato a rincorrere il presente per pensare al futuro.
Un’istantanea del disagio la forniscono i dati sull’emigrazione. Sono circa 300mila dal 1990 le persone che hanno cercato fortuna all’estero. E su una popolazione di 3,4 milioni di persone è un bel numero. Oggi la Lituania detiene il primato del paese dell’UE con il più alto tasso di emigrazione. Anzi da quando nel 2004 Vilnius è entrata a far parte del club di Bruxelles il tasso di chi decide di andarsene è addirittura raddoppiato. Tra il 2004 e il 2005 gli emigranti sono stati circa 49mila. Vanno soprattutto in Gran Bretagna, Irlanda, Svezia e Spagna. I primi tre Paesi sono quelli che nell’UE hanno deciso di non contingentare l’arrivo di immigrati dai dodici nuovi membri dell’Unione. La maggior parte di chi parte è un operaio specializzato, anche se moltissimi sono i laureati. Il motivo principale che spinge i lituani a fare le valigie è presto detto: i salari. Negli ultimi anni, è vero, sono aumentati, ma la concorrenza dei Paesi europei è impossibile da contrastare. Emblematico è il caso dei medici. Il primo salario lordo di un medico neolaureato è di 800 litas al mese (circa 380 franchi) che è appena poco meno del doppio delle 450 litas del salario minimo. Così sono in moltissimi gli universitari che decidono di andare a studiare all’estero o i neolaureati che cercano fortuna in Europa. Nelle città c’è grande richiesta di operai specializzati e professionisti, ma in campagna chi si affaccia sul mondo del lavoro sa che ad aspettarlo ci sono salari da fame. Così la campagna si svuota di giovani e nei piccoli centri rimangono solo gli anziani e chi non è riuscito ad integrarsi nel nuovo sistema perché troppo abituato all’assistenzialismo dei tempi del regime. Il disagio sociale è in crescita. All’appello non mancano solo 300mila persone, manca praticamente una generazione intera. La classe politica scommette tutto sulle magnifiche sorti e progressive che sembrano dietro l’angolo e spera che i giovani emigrati tornino presto sui loro passi. Più che una speranza è una vera e propria scommessa da cui dipende il futuro del Paese. Sembra di sentirla corridori dei palazzi del potere di Vilnius l’eco di quell’interrogativo cruciale: «Chi si prenderà carico del nuovo Paese che stiamo costruendo?».

VIAGGIO IN TERRA SANTA/3

Giornale del Popolo, 27 febbraio 2007

Gerusalemme. All’Hotel Shalom di Gerusalemme, devo dire, mi sono sentito un po’ a disagio per come ero vestito: una polo e un paio di jeans. L’albergo, infatti, era frequentato in quei giorni da ebrei ortodossi (completo nero e cappello nero a falda larga), seminaristi e preti ticinesi (rigorosamente in clergy) e una chiassosa comitiva di nigeriani che sfoggiavano i loro coloratissimi abiti tradizionali. Noi giovani della Diocesi di Lugano, con la nostra comune tenuta da pellegrini, eravamo in netta minoranza. A dire il vero quelli più fuori posto mi sembravano i nigeriani. Chiedo spiegazioni a Renato, un signore sulla sessantina che gestisce in Terra Santa i pellegrinaggi della Brevivet. Renato è un uomo brusco ma simpatico. Vive da vent’anni a Gerusalemme almeno dieci mesi l’anno, conosce l’arabo e l’ebraico e sa alla perfezione come girano le cose da queste parti. «Il governo nigeriano – mi spiega – per cercare di attenuare le tensioni interne tra musulmani e cristiani paga ogni anno decine di migliaia di pellegrinaggi alla Mecca per gli islamici e a Gerusalemme per i protestanti e i cattolici. Quest’anno sono previsti 12mila pellegrini dalla Nigeria». Questo è solo un esempio di come qui a Gerusalemme sia impossibile tracciare una netta separazione tra politica e religione. La nostra guida suda sette camice nel tentativo di spiegarci il complicato groviglio di questioni politiche e religiose di cui è fatta la vita quotidiana in questa città. In non più di un chilometro quadrato, infatti, si trovano i luoghi più santi delle tre religioni monoteiste e qui per il controllo di ogni pietra si è pronti – quando va bene – a menar le mani. Eppure tutte le tensioni e le incomprensioni non riescono a intaccare l’indicibile bellezza di questa città.
Il nostro pellegrinaggio ha cercato di seguire le tappe della Settimana Santa. Il giovedì è stato dedicato alla visita del luogo in cui, secondo la tradizione, si trovava il Cenacolo. Per strani motivi gli israeliani non permettono ai cristiani di celebrare la messa in questo luogo se non in rarissime circostanze. Così ci tocca celebrare la messa in una chiesina nelle vicinanze, detta il “Cenacolino”. Qui i seminaristi e i preti che ci accompagnano appaiono parecchio emozionati. È il luogo dove Gesù ha istituito l’Eucarestia e, dunque, anche il ministero del sacerdozio. Mons. Vescovo dice una cosa che non mi aspetto: «Se fossimo stati noi al posto di Gesù, con che coraggio avremmo cenato quella sera? Lui sapeva che lo avrebbero tradito, non solo Giuda, ma tutti quanti lo avrebbero fatto. Al posto suo ci saremmo alzati e ce ne saremmo andati. Noi pensiamo: “Siamo puri e dunque possiamo prendere il pane”. È il contrario: “Voi non siete puri ed io vi do il mio pane”». I suoi discepoli erano sempre spiazzati da quel che diceva e da quel che faceva. Era imprevedibile, così dolcemente e tremendamente imprevedibile. Ed era per questo che stavano con Lui. Ed è per questo che continuiamo a farlo anche noi. Nel Getsemani celebriamo, invece, “l’Ora Santa”. Scopro qui che l’Ora Santa è una pratica di devozione nella quale si ricorda l’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi. Tornò e trovò Pietro, Giacomo e Giovanni che dormivano: «Non avete saputo vegliare neanche un’ora». E da qui l’idea di un’ora di preghiera di fronte al Santissimo Sacramento. In quell’occasione gli apostoli ci fecero davvero una pessima figura e mons. Grampa, nella sua meditazione, non manca di farlo notare. Ma ora lo devo confessare: sarà stato per la levataccia al mattino, sarà stato per la penombra della chiesa, ma anch’io a un certo punto ho chiuso gli occhi e mi sono addormentato. Non per cercare giustificazioni, ma in fondo, a pensarci bene, quei tre lì, poi, li hanno fatti santi…
Non c’è bisogno di essere già stati in Terra Santa per sapere che la Via Crucis a Gerusalemme passa attraverso i vicoli della città vecchia dove la vita continua come se nulla fosse. Gente che grida, gente che vende, che compra, gente che passa e si fa il segno della croce e gente che passa e sputa per terra maledicendoti. Era così allora mentre Gesù saliva il Calvario, è così anche adesso, e non solo negli stretti vicoli della vecchia Gerusalemme. I seminaristi si alternano a portare la croce fino alla grande chiesa del Santo Sepolcro. Il luogo della crocefissione e quello della sepoltura di Gesù, infatti, sono talmente vicini che oggi sono ospitati sotto il tetto della stessa chiesa. Varco la soglia e mi accorgo che per entrare al Sepolcro c’è la fila, mentre per toccare la roccia dove è stata piantata la croce non c’è bisogno di aspettare. All’uscita qualcuno dirà scherzando: «Qui la gente pretende la resurrezione senza passare dalla croce…». Io decido di non andare subito al Sepolcro e rimando la visita al giorno dopo.Il giorno dopo, sabato, mi metto in coda per entrare nel luogo dove Gesù è stato deposto esanime la sera del Venerdì Santo e risorto tre giorni dopo. Siamo io e Isabella. A regolare gli accessi alla piccola porta che dà accesso al luogo più santo della città più santa che ci sia, c’è un marcantonio dalla barba lunga e la faccia cattiva. È uno dei monaci ortodossi che custodiscono la Basilica. Siamo in fila da ormai più di un’ora e, per motivi che ci sfuggono, non fanno entrare nessuno. La gente si innervosisce e incomincia a litigare: «Sono arrivato prima io», «No, io sono qui da prima di te». Si comincia a spingere e il marcantonio sembra in difficoltà. Finisce per essere ancora più burbero e scontroso. Isabella, schiacciata tra un pellegrino russo e uno americano che litigano, perde la pazienza e se ne va maledicendo tutti: «Mica stiamo andando a vedere la Gioconda, per Dio». Io mantengo la calma e riesco ad entrare. La ritrovo in lacrime sul piazzale fuori dalla Basilica: «Che pellegrinaggio è se non riesco a pregare lì dentro? Ora non c’è più tempo per farlo. Domani è domenica e partiamo dall’albergo alle 8.30». «E chi l’ha detto che non c’è più tempo?», rispondo. Ci informiamo: c’è una messa alle 5.30 di mattina, ma le dicono: «Una ragazza non può andare in giro da sola a quell’ora in quel quartiere». Mi fa: «Mi accompagni? ». «Ti accompagno». E’ l’alba del giorno dopo, il primo dopo il sabato. Stiamo correndo in taxi verso il Sepolcro di Gesù. In giro non c’è anima viva e dalla Porta di Jaffa alla Basilica non incontriamo nessuno. Arriviamo dieci minuti prima della messa. Col cuore in gola, e stavolta senza fare fila, riusciamo ad entrare nel luogo santo. Mi vengono in mente le facce di Pietro e Giovanni che corrono al Sepolcro nel famoso quadro di Eugène Burnand. Anche loro giunti qui, quella mattina, sconvolti, impauriti. «Raccontaci Maria, cosa hai visto… ». Non c’è, non è più lì dentro. Toccando quella pietra mi si stringe il cuore e penso anch’io: «Non è qui. Non è qui. Non è qui. È risorto».

VIAGGIO IN TERRA SANTA/2

Giornale del Popolo, 23 febbraio 2007

Gerusalemme. «Da dove venite?» mi chiede in italiano una suora vestita di grigio. «Lugano, sorella» rispondo io con un filo di voce. Siamo seduti uno accanto all’altra nella penombra della grotta della Natività a Betlemme. Lei ha in mano il rosario, noi del gruppo giovani della Diocesi abbiamo appena terminato di cantare “Tu scendi dalle stelle”. Fuori c’è il sole e il termometro segna più di 20 gradi, ma il Bambino che viene in una grotta “al freddo e al gelo” te lo vedi lì lo stesso, in braccio a sua madre che cerca di scaldarlo. Le facce della gente di Betlemme sono le stesse dei pastori che quella notte arrivarono chiamati dall’angelo. Ma qui sotto capisco che non occorre avere la faccia da palestinese per essere sopraffatto dal loro stesso stupore. Una stella a quattordici punte segna il luogo esatto della nascita, come è esatta, precisa al millimetro, la consapevolezza – che qui sorge – della necessità di quel che successe allora. Dio che si fa uomo. Ci sarebbe stato un altro modo per riempire il vuoto della mia umanità? Non un’idea, non una filosofia, ma un uomo che nasce, cresce e ti offre la sua amicizia infinita. «Sorella, lei invece da dove viene?» domando, sempre sotto voce, a quella che credo essere una pellegrina come me. «Vengo da Pordenone – mi risponde – ma abito a Betlemme da 43 anni». «Lei invece – mi fa indicando la consorella che le siede accanto – viene da Bergamo e ne ha passati qui 51…». Preso alla sprovvista rispondo con la prima cosa che mi viene in mente pensando a una vita spesa in questa terra così santa e così piena di dolore e contraddizione: «Grazie, grazie davvero». «Vedi – risponde – vivere qui è molto bello ma a volte è anche molto difficile ». I nostri sguardi si incrociano nella semioscurità. Io capisco, anche se – certamente – dell’abisso di quella semplice frase qualcosa mi sfugge. La Basilica della Natività è una meraviglia in tanti sensi. È di proprietà degli ortodossi. I frati francescani possiedono invece la Chiesa di Santa Caterina che è stata costruita addosso alla parete sinistra dell’antica basilica bizantina. L’entrata principale della chiesa ortodossa non è alta più di un metro e mezzo. La chiamano “la porta dell’umiltà” perché occorre chinarsi per attraversarla. In realtà fu costruita così in secoli in cui non era raro, da parte di qualche musulmano, entrare nella chiesa dimenticandosi di scendere da cavallo… Insieme a noi arriva alla Basilica il corteo funebre di un parrocchiano arabo cattolico di Betlemme. La bara aperta viene portata a spalla, e la gente canta un inno in lingua araba. Il funerale deve essere celebrato nella chiesa cattolica, Santa Caterina, ma il corteo vuole comunque passare per la “porta dell’umiltà” (le due chiese sono comunicanti). L’esercizio di far passare la bara dalla porta non è cosa semplice, ma i cattolici di qui non rinunciano a questi piccoli gesti ad alto contenuto simbolico.

«Betlemme – ci dice la nostra guida – è diventato un carcere a cielo aperto». Si riferisce alla costruzione del muro che separa Gerusalemme Ovest, israeliana, da Gerusalemme Est, araba. Betlemme è praticamente parte della periferia di Gerusalemme Est. La costruzione della barriera, alta otto metri, è cominciata nel 2004 e da allora gli israeliani non hanno sentito più parlare di kamikaze, mentre i palestinesi non hanno sentito più parlare di libertà di movimento. La cittadina si è bloccata e la disoccupazione e le sue conseguenze sociali hanno preso il sopravvento sulla maggioranza della popolazione. Dopo il 2000, con l’inizio della seconda intifada, i pellegrinaggi si sono interrotti per tre anni. La comunità cristiana, che dei pellegrinaggi vive, sente ancora le ricadute di questa pausa forzata. L’appello dei cristiani è: «Non abbandonateci, continuate a tornare, non fermate i pellegrinaggi ». Ce lo dicono anche i responsabili di una cooperativa di artigiani di Betlemme, quando ci accolgono nel grande spaccio di oggetti di legno di ulivo: presepi, croci, piccole statue, rosari. Noi, che non possiamo fare altro, diamo fondo al portafogli.

La tappa che aveva preceduto l’arrivo a Betlemme non poteva inaugurare meglio la nostra Quaresima. Alle 9.00 di mattina del mercoledì delle ceneri, infatti, visitiamo con mons. Grampa il “Monte della quarantena”. Il monte, cioè, dove si dice che Gesù abbia trascorso i quaranta giorni di digiuno prima dell’inizio della sua predicazione e al termine dei quali fu tentato tre volte dal diavolo. Sul luogo è stato costruito un monastero ortodosso a strapiombo su un burrone. Lo raggiungiamo camminando per un sentiero che si abbarbica lento sul fianco di una montagna brulla. Da qui la vista è mozzafiato. Tutto il complesso è scavato nella roccia e lo stile è tipicamente greco. A custodia del monastero ci sono due monaci. Dai loro volti rugosi scende la lunga barba. Una è bianca, l’altra è nera. Alla fine della visita troviamo il monaco dalla barba nera seduto all’entrata del monastero che scruta l’orizzonte. Mons. Grampa gli si siede accanto e parlando nel suo greco scolastico gli dice: «Salve, io sono un vescovo». Poi mi fa cenno: «Facci una fotografia». Quando il monaco capisce quel che sta succedendo, non ci pensa due volte: si alza e se ne va con l’aria seccata. Questioni ecumeniche o solo di cattivo umore?