Vi prego andatevi a leggere l’intervista che ieri d’Orrico ha fatto a Rino Gattuso sul Magazine del Corriere: un corso di psico-sociologia terronico-calcistica di altissimo livello.
Vi prego andatevi a leggere l’intervista che ieri d’Orrico ha fatto a Rino Gattuso sul Magazine del Corriere: un corso di psico-sociologia terronico-calcistica di altissimo livello.
Mi ha molto colpito la cronaca fatta da Cervellera della morte del presidente dell’Associazione Patriottica dei cattolici cinesi, nonché arcivescovo della Chiesa patriottica di Pechino. Una figura tragica, dice padre Bernardo, molto stimato dalle gerarchie del partito e odiato dai suoi stessi fedeli. Si chiamava Michele Fu Tieshan e riceverà le esequie di Stato alle quali non parteciperà nessun rappresentante vaticano.
Fu Tieshan, in realtà, era una figura di rappresentanta dell’Associazione Patriottica che, invece, è controllata dal signor Liu Bai Nie. Liu Bai Nie è definito dai fedeli cinesi “il papa laico”, è lui infatti a decidere all’interno della Chiesa Patriottica non ancora riconciliata con il Vaticano. E’ lui ad aver deciso, ad esempio, le ordinazioni illecite dell’anno scorso. Un gangster è dir poco.
SVIZZERA: BREVE STORIA DELLE “UNIONI DOMESTICHE REGISTRATE”
Da Avvenire, 26 gennaio 2007
Lugano. “Innanzi tutto complimenti e tanti auguri” dice compiacente la giornalista della Radio svizzera. “Tante grazie – risponde lui raggiante – noi non vogliamo pubblicità, ma consideriamo questo giorno come il corollario di 31 anni di vita in comune. Per questa ragione anche le vere, che abbiamo fatto fare il 4 novembre 1975, non le abbiamo mai usate e le abbiamo messe solo oggi per la prima volta”. Questo l’incipit della cronaca, trionfalistica e priva del proverbiale distacco elvetico, offerta dal servizio pubblico svizzero di quanto accaduto la mattina dello scorso 2 gennaio all’Ufficio di Stato civile del Comune di Locarno, dove la prima coppia omosessuale del Paese – due uomini ormai in là con gli anni – ha potuto registrare la propria “unione domestica”. Dall’inizio dell’anno, infatti, è entrata in vigore la legge sulle unioni domestiche registrate che gli svizzeri hanno approvato in votazione popolare nel giugno del 2005. Dietro il nome burocratico e asettico, che potrebbe ricordare i PACS francesi, si nasconde nella sostanza un istituto praticamente analogo al matrimonio omosessuale “alla spagnola”. L’unione registrata delle coppie omossessuali, infatti, è un contratto di diritto pubblico come il matrimonio, firmato all’ufficio di stato civile come il matrimonio, con lo stato civile che cambia come con il matrimonio. Da celibi o nubili i contraenti diventano sulla carta d’identità“unione domestica registrata”. Ma non solo. Per adattare il diritto svizzero alla nuova legge, il parlamento di Berna ha dovuto modificare ben 31 leggi cadendo spesso nel ridicolo. Contraendo l’unione domestica, ad esempio, si vengono a creare i rapporti stabiliti dall’albero genealogico e i contraenti di queste nuove unioni diventano a seconda del caso: generi, nuore, zii, cugini cognati ecc. Ma c’è dell’altro. Secondo la legge il superstite di unione domestica registrata diventa, in barba a qualsiasi dizionario, “vedovo/a” acquisendo il diritto alla vedovanza. Successioni, assicurazioni sociali, previdenza professionale: dal punto di vista giuridico le nuove unioni hanno gli stessi diritti e doveri riconosciuti e tutelati per l’istituto matrimoniale. Stesse norme anche per il divorzio che può avvenire di comune accordo o su richiesta del singolo se la convivenza è terminata da almeno un anno. Nel caso di bisogno, ci mancherebbe, il giudice può decidere se fissare i contributi di mantenimento. Come per qualsiasi coppia divorziata che si rispetti.
La foglia di fico dietro alla quale ci si è voluti nascondere per segnare la differenza tra queste unioni e il matrimonio tradizionale (a parte il gelido nome burocratico) è l’impossibilità delle prime di adottare bambini e di accedere alla riproduzione medicalmente assistita. Ma la scelta di un nome così neutro è motivata anche dalla volontà dei promotori della nuova legge di far digerire più facilmente all’opinione pubblica svizzera la sostanziale equiparazione. La lobby omosessuale al Parlamento di Berna, determinata e ben organizzata, si è mossa in maniera astuta mettendo l’opinione pubblica di fronte a un fatto compiuto. All’inizio dell’iter legislativo, infatti, la commissione parlamentare incaricata di studiare il problema si era orientata verso il modello dei PACS francesi: di diritto privato, stipulabili in polizia o in tribunale, senza conseguenze sullo stato civile e non riservati soltanto alle coppie omossessuali. Discutibili certo, ma col vantaggio di preservare la differenza giuridica del matrimonio. La soluzione, evidentemente, non sembrava bastare a chi, come il parlamentare zurighese Felix Gutzwiller (già campione della battaglia per l’introduzione dell’aborto), voleva puntare dritto all’obiettivo dei matrimoni gay tout-court. Così, grazie a un sapiente lavoro parlamentare, Gutzwiller è riuscito a imporre una soluzione che scientemente utilizzava il diritto matrimoniale come struttura giuridica per le nuove unioni che, a questo punto, avrebbero interessato solo gli omosessuali. Il risultato è una legge di compromesso, ma che non impedisce di eliminare in futuro le ultime differenze con il matrimonio tradizionale. L’ultima chance che rimaneva per fermare il progetto era quella del referendum popolare promosso da un pugno di piccoli partiti minori. A favore della legge si schiera, ad eccezione delle sezioni di Ticino, Vallese e Friburgo, anche il Partito Popolare Democratico che storicamente rappresenta i cristiani svizzeri in politica. La Conferenza Episcopale Svizzera si pone nettamente contro «una falsa soluzione ad un problema reale» e accusa la legge di privilegiare «senza motivo apparente un gruppo di persone rispetto ad altri». Il fronte referendario viene battuto e 5 giugno 2005 il 58 per cento degli svizzeri approva le nuove unioni. Dal primo gennaio, dunque, lo Stato svizzero riconosce le unioni omosessuali. Il prossimo obiettivo di Gutzwiller e compagnia, non c’è da dubitarne, è l’adozione e l’accesso alla provetta. Tanto ormai la porta è aperta.
SU UNA MOSTRA E UN CONVEGNO A CENT’ANNI DALLA NASCITA
Se oggi possiamo leggere il capolavoro di Vasilij Grossman Vita e destino lo dobbiamo a uomini e donne coraggiosi che molto hanno rischiato per strappare dall’oblio quello che numerosi studiosi di letteratura ritengono il più importante romanzo russo del XX secolo. La vicenda di come il manoscritto di Grossman riuscì ad essere pubblicato in Occidente è quasi una spy-story con tanto di agenti segreti e microfilm. Tutto inizia quando il 14 febbraio 1961 gli agenti del KGB sequestrano il manoscritto e tutte le copie dattiloscritte di “Vita e destino”, gli appunti, la carta carbone e i nastri della macchina per scrivere. Ma prima del blitz in casa sua, Grossman aveva affidato due copie dattiloscritte a persone fidate. La prima, in bella copia battuta a macchina, a Semen Lipkin. La seconda, sempre battuta a macchina ma con molte correzioni autografe, a Viaceslav Ivanovic Loboda. Dopo la morte di Grossman nel 1965, Lipkin tenta di riportare clandestinamente la sua copia in Occidente. Ne vengono fatti due microfilm: il primo da Vladimir Voinovich e il secondo da Andrei Sacharov e sua moglie Elena Bonner nel laboratorio clandestino che si trovava nel gabinetto della loro casa di Mosca. Nel 1978, Rosemarie Ziegler, ricercatrice austriaca in slavistica, passa il confine nascondendo i due microfilm in una scatola non più grande di un pacchetto di sigarette. A Parigi la scatola viene consegnata a Efir Etkind un illustre critico e filologo cacciato dal regime di Mosca per aver aiutato Solzenicyn.
I microfilm a Losanna
Nessuno in Francia vuole pubblicare l’ennesimo “romanzo di guerra”. Lo fa invece in Svizzera l’editore serbo di Losanna Vladimir Dimitrievic che conosceva l’esistenza del romanzo e che, in possesso dei microfilm, si butta anima e corpo nel lavoro di pubblicazione del libro. Ci vollero due mesi per decifrare il testo delle oltre mille pagine e un accurato lavoro filologico per integrare il contenuto delle due versioni, lavoro che non permise però di ricostruire completamente tutte le parti del romanzo. In quel periodo Dimitrievic, per paura del Kgb, girava con i microfilm sempre in tasca, giorno e notte. Con diverse lacune, nel 1980, l’Âge d’Homme pubblica la prima edizione in russo di “Vita e destino” dalla quale vennero tradotte le prime edizioni in francese (L’Âge d’Homme, 1981) e in italiano (Jaca Book, 1982). Nel 1988 il libro approda finalmente in Russia. Per colmare le lacune della versione dei microfilm di Lipkin si è dovuto aspettare che l’altra versione, quella più completa con le ultime correzioni dell’autore, fosse consegnata agli eredi di Grossman e pubblicata a Mosca nel 1990 con la dicitura “Secondo il manoscritto dell’autore”.
Una mostra a Torino
I microfilm sono stati mostrati da Dimitrievic, la settimana scorsa, al convegno internazionale per il centenario della nascita di Grossman, organizzato a Torino dal “Centro Culturale Piergiorgio Frassati” e dalla “Fondazione Arte Storia Cultura Ebraica a Casale Monferrato” che pure hanno allestito una bellissima mostra su “Vita e destino” al “Museo diffuso della Resistenza” di Corso Valdocco. Esposizione e convegno, come ha notato lo scorso 12 dicembre all’inaugurazione della mostra il figlio adottivo di Grossman Fedor Guber, sono stati le uniche iniziative al mondo che hanno ricordato l’anniversario di un autore del quale, forse, ancora troppo poco si parla. Vasilij nasce nel 1905 a Berdicev da una famiglia ebrea e studia da chimico. Inizia a scrivere, come si faceva sotto il regime di Stalin, con l’incoraggiamento di Gorkij; pubblica scritti impregnati della dottrina stalinista. La sua fede nel comunismo è totale; egli si abitua con facilità agli arresti di amici, parenti e personaggi pubblici di indubbio valore. Partecipa alla guerra e alla battaglia di Stalingrado come corrispondente di “Stella rossa”, il giornale dell’esercito e partecipa alla liberazione del lager nazista di Treblinka che gli ispira un celebre racconto. Dopo la guerra, collabora alla stesura de Il libro nero, una dettagliata ricostruzione del genocidio della popolazione ebraica nei territori sovietici occupati. Attraverso queste esperienze, tra cui la scoperta dell’uccisione della madre da parte dei nazisti, Grossman prende coscienza della propria identità ebraica e inizia ad accorgersi dell’antisemitismo propugnato dall’intellighenzia sovietica. Le certezze di Grossman cominciano a venir meno e il fascino per il comunismo svanisce.
Uomini veri a Stalingrado
Decide dunque di mettere mano all’opera colossale che diventerà “Vita e destino” e che lo impegna dal 1955 al 1960. Sceglie di ambientare la storia durante la battaglia di Stalingrado: «Ogni epoca – si legge nel romanzo – ha la sua città che la rappresenta al mondo e ne custodisce l’anima e la volontà. Stalingrado fu questa città per un certo periodo della seconda guerra mondiale». La mostra propone numerose fotografie d’epoca della città durante e dopo l’assedio; immagini, concesse dal “Museo Statale Centrale di Storia Contemporanea Russa”, che riescono a rievocare la tragedia di una delle più drammatiche e epiche battaglie della seconda guerra mondiale. È nell’inferno di questo assedio che Grossman scopre il volto ultimo della libertà che per lui consiste «nell’irripetibilità, nell’unicità dell’anima di ogni singola vita». Insomma, anche nella casa 6/1, una casamatta al fronte di fuoco tra tedeschi e russi, il pugno di soldati sovietici che sopravvive da giorni con poche patate e bevendo l’acqua dei termosifoni, riscopre la radice della propria umanità. Lo dimostra il dialogo tra il comandante Grekov e il mitragliere Saposnikov apre la mostra di Torino: la casa 6/1 è difficilmente raggiungibile dagli ordini del comando perché si trova proprio sulla linea d’attacco tedesca. Così viene inviata tra loro Katja, una giovane radiotelegrafista. Si sa com’è la guerra, e si sa anche come sono i soldati. Ma il comandante Grekov si convince che per il suo coraggio e la sua anzianità spetta a lui avvicinare per primo la ragazza. Ma una notte trova il mitragliere Saposnikov e Katja addormentati in un abbraccio. La mattina dopo li convoca entrambi: «Saposnikov, tu ora raggiungerai lo stato maggiore del reggimento, io ti trasferisco ». Il mitragliere pensa: «la cacciata dal paradiso, ci separa come schiavi». Poi Grekov lancia un’occhiata a Katja. «Beh, è tutto» conclude il comandante aggiungendo: «Con te verrà la telegrafista. Cos’ha da fare qui senza la ricetrasmittente? L’accompagnerai fino allo stato maggiore: Là troverete da soli la vostra strada».
Totalitarismi allo specchio
Il fronte di Stalingrado, rappresentando per Grossman anche il luogo dell’incontro tra due totalitarismi uguali e contrari, getta luce, con anni di anticipo, sulla storiografia occidentale, su uno dei lati più tragici del XX secolo. «Al socialismo – dice in un drammatico dialogo un ufficiale tedesco a un comandante bolscevico – è necessario privare i contadini del diritto di seminare e di vendere liberamente, e Stalin senza tremare ne ha liquidati milioni. Il nostro Hitler si è reso conto che al nazionalsocialismo tedesco nuoce un nemico: il giudaismo. E anche lui ha deciso di liquidare milioni di ebrei… deve credermi. Io ho parlato e lei ha taciuto, ma io so di essere per lei uno specchio». Eppudettagliare, nonostante la furia della violenza, anche nell’inferno di Treblinka o della Siberia l’uomo rimane libero, cioè capace di gesti assolutamente gratuiti. È il caso di Sofja che sul vagone che la porta nel campo di concentramento incontra un bambino, David. Lui si affeziona a lei. Lei si accorge che il bambino si tranquillizza quando le è accanto. «Quando arrivò il loro turno nella camera a gas – racconta Grossman – i contorcimenti del bambino la riempivano di compassione. L’avevano ucciso, aveva cessato di esistere. Sofja sentì il corpo del bambino afflosciarsi tra le sue braccia: David se n’era andato prima di lei. «Sono madre », pensò. Questo fu il suo ultimo pensiero». Ma se per Grossman il «destino» sembra coincidere con il tragico «fato» della cultura statalista che fa di tutto per soffocare le domande del cuore dell’uomo, proprio dal suo romanzo – e in questo senso si può dire che egli su questo punto supera se stesso – emerge come dalla vita si sprigioni l’aspirazione ad un orizzonte buono al quale le persone tendono in qualsiasi circostanza.
Dalla vita al destino
In “Vita e destino” il segno di questa infinita bontà sembra essere il rapporto tra le domande dell’uomo e la natura e in particolare con la steppa calmucca: «In questa steppa la terra e il cielo si sono guardati così a lungo reciprocamente, fino a rassomigliarsi come si somigliano marito e moglie che abbiano vissuto insieme una vita. (…) A cosa pensava correndo per la steppa il cavaliere: ai figli, al fatto che al colonnello russo rimasto a fianco della sua auto sporca era morto il padre? Darenskij seguiva l’impetuoso galoppo del vecchio cavallo e nelle tempie non era il sangue a pulsargli ma un’unica parola: libertà, libertà, libertà…». Aveva ragione il Kgb a temere questo libro ma, grazie a Dio, non controllò tutte le scatole non più grandi di un pacchetto di sigarette che c’erano da controllare.
vedi anche: Centro Studi Vita e Destino
Giornale del Popolo, 5 ottobre 2006
In Europa la paura fa novanta. Non c’è dubbio che da qualche tempo a questa parte chiunque, dal Papa in giù, ha qualcosa da dire sull’Islam deve stare attento a quel che dice. Chi sgarra o non ci sta può rischiarela vita. È successo a Robert Redeker, professore di filosofia in un liceo di Tolosa e già direttore della rivista fondata da Jean-Paul Sartre Temps Modernes, che ha avuto l’ardire di difendere sulle colonne di “Le Figaro” la libertà di parola di Benedetto XVI e fare un paio di osservazioni che ad alcuni musulmani proprio non sono piaciute. A tal punto non sono piaciute che contro di lui è stata lanciata una fatwa. Ha ricevuto di conseguenza minacce di morte e su internet sono comparse cartine di Tolosa che indicavano la posizione della sua abitazione. Oggi vive sotto la protezionedella Brigata antiterrorismo della Dst (Direzione della sorveglianza del territorio), vagando ogni due giorni da un alloggio a un altro coi suoi familiari.
Ma cosa ha detto Redeker nel suo articolo? Ha rivolto un invito a contenere“l’islamisation des esprits”, «che dilaga ogni giorno di più e traduce una sottomissione più o meno cosciente ai diktat dell’Islam». Poi Redeker scrive quello che, secondo i musulmani che lo accusano, non avrebbe dovuto mai scrivere: «Odio e violenza abitano il libro in cui ogni musulmano viene educato, il Corano. E oggi come ai tempi della Guerra fredda, violenza e intimidazione, sono i mezzi utilizzati da un’ideologia a vocazione egemonica, per imporre la sua cappa di piombo sul mondo».
Tesi discutibile, quanto era discutibile il contenuto del cortometraggio “Submission”che costò la vita in Olanda aTheo van Gogh. Eppure sembra paradossale che oggi nella culla dell’Illuminismo ci si debba porre il problema di cosa si possa dire e cosa no per non rischiare la vita. Purtroppo la tesi di Redeker sui “dicktat dell’Islam” sembrano essersi verificate sulla sua pelle. Fatta eccezione per unmanifesto di intellettuali pubblicato da “Le Monde” (tra i firmatari André Glucksmann, Alain Finkielkraut, Alexandre Adler e Bernard HenryLevy) e una condanna del primo ministro Dominique De Villepin, infatti, il mondo politico francese continua a tacere (mancano pochi mesi alle presidenziali e nessuno vuole prendersi il rischio di attirarsi le antipatie– o qualcosa d’altro – dei musulmani). Tra i pochi intellettuali di sinistra che si sono uniti alla solidarietà a Redeker c’è Jacques Julliard, editorialista del Nouvel Observator che ieri in un intervista al Foglio diceva: «La libertàdi pensiero si logora se uno non se ne serve. Siamo di fronte a una regressione formidabile. Nessuno sipoteva immaginare che in un Paese come la Francia si potesse essere minacciati per le proprie opinioni. Dopo il discorso del Papa a Regensburg, quello di Redeker è un nuovo caso Rushdie». E Julliard aggiunge: «Succede oggi quello che nessuno si sarebbe mai aspettato: che la libertà di opinione potesse essere minacciata non dallo Stato, con forme di censura,come è successo in passato, ma da gruppi clandestini». Ma l’editorialista non assolve tutti i suoi colleghi intellettuali e dice: «Devo constatare che alcuni noti anticlericali da qualche tempo restano in silenzio. Non faccio nomi. Ma molti intellettuali in Francia trovano più comodo attaccare il cristianesimo, che ormai non minaccia più nessuno, piuttosto che criticare l’Islam, che è una minaccia per proprio tutti».
L’attuale direttore di Temps Modernes, invece, ha lanciato un appello in difesa del suo predecessore dicendo: «Oggi c’è una grande paura. Siamo arrivati a vietare un’opera di Mozart a Berlino, come se gli ebrei chiedessero di tagliare dal “Mercantedi Venezia” di Shakespeare la scena della libbra di carne richiesta dall’usuraio Shylock».N on sarà una grande consolazioneper Redeker, ma in questo momento viene accostato, nella battaglia per la libertà d’opinione, a due personalità come Benedetto XVI e Wolfang Amadeus Mozart. Se del Papa si è detto e ridetto, sul caso della rappresentazionedell’“Idomeneo” ritenuta (preventivamente) offensiva per l’Islam e quindi un rischio per la sicurezza dispettatori e autori, ieri sulle colonne del quotidiano italiano la Repubblica è intervenuto uno dei più noti e apprezzati direttori d’orchestra del mondo: Daniel Barenboim. «Limitare la propria libertà di espressione per paura è tanto inconcludente quanto imporre il proprio punto di vista con la forza marziale», dice il maestro nel suo commento e senza paura (questa volta non dei musulmani, ma deiben pensanti) afferma che la “correttezza politica” non è in sostanza diversa dal fondamentalismo nelle sue molteplici manifestazioni e aggiunge: «Sia la correttezza politica, sia il fondamentalismo forniscono risposte non al fine di migliorare la comprensione, bensì allo scopo di eludere le domande». Tanta paura e poche domande e a rimetterci è solo la libertà.