Dal Giornale del Popolo del 23 giugno 2007
“Tutti parlano del processo di pace: io mi auguro che si lasci perdere il processo e si giunga finalmente alla pace, visto che il processo dura da ormai sessant’anni e non ha ancora portato a nulla”. Ci scherza un po’, ma non troppo, mons. Fouad Twal, arcivescovo coadiutore di Gerusalemme giunto a Venezia all’incontro del Comitato scientifico di Oasis per raccontare l’ormai inesorabile emorragia di cristiani che scappano dalla Terra Santa. Mons. Twal è giordano, della tribù Al Uzaizat, oriunda dalla grande tribù beduina cristiana Al Gassante. Quella – per intenderci – che combatté al fianco di Maometto contro i bizantini. Un arabo, cresciuto in terra di musulmani che ora ha la responsabilità dei cristiani cattolici che abitano nella terra in cui nacque Gesù.
Mons Twal, come giudica l’evolversi della situazione nei territori palestinesi?
La situazione drammatica della Terra Santa è sempre stata al centro dell’attenzione internazionale. Oggi viene sottolineata la situazione a Gaza, ma occorre stare attenti a non dare alla situazione di Gaza un’importanza esagerata. L’attenzione va data a tutta la crisi in Palestina: dentro questa grande crisi ci sono crisi più piccole come quella in atto a Gaza. È come guardare l’albero che brucia senza tener conto dell’incendio di tutta la foresta.
D’accordo, ma lo scorso 14 giugno una scuola cattolica a Gaza è stata attaccata e bruciata…
Quella scuola è gestita dalle nostre suore del Rosario. Sono tre, tutte giordane. Una di loro è mia cugina. La questione è che l’assenza di un Governo stabile e forte in grado di tener sotto controllo la situazione dà la possibilità a gruppi di banditi di fare queste cose. Non parlerei di un attacco di musulmani contro i cristiani. In una situazione di totale disordine è ovvio che a soffrirne di più siano i più deboli. Che in questo caso siamo noi cristiani.
Intanto Israele ha assicurato il suo appoggio a presidente palestinese Abu Mazen…
Fa bene, anche se avrebbe dovuto farlo da oltre un anno.
Come giudica la decisione di sbloccare i fondi per l’ANP?
Me ne rallegro. Non è mai tardi per fare le cose giuste. A soffrire di quel blocco sono i semplici impiegati, gli studenti, le famiglie. Gli studenti nelle nostre scuole cattoliche non erano più in grado di pagare le rette, perché i loro genitori non avevano il salario alla fine del mese. Come si è visto non è stata Hamas a pagare le conseguenze del blocco dei finanziamenti.
Lei teme un disastro umanitario a Gaza?
Spero che i responsabili delle nazioni abbiamo un po’ di cuore, di testa e di dignità: non si può far morire un milione e trecento mila esseri umani perché non si è d’accordo politicamente con un gruppo o con un altro.
La Chiesa chiede più attenzione per la comunità cristiana. Perché?
Noi chiediamo che i politici quando prendono delle decisioni concernenti il Medioriente e la Terra Santa prendano in considerazione anche la presenza dei cristiani. Non credo che i politici quando decidono considerino l’aspetto religioso. Raramente qualcuno ha chiesto il parere dei cristiani mediorientali. Eppure noi siamo là, viviamo là e possiamo essere un ponte di dialogo tra i musulmani e i cristiani. Siamo radicati in Medioriente, con la nostra origine, con la nostra cultura, con il nostro approccio. I mondo musulmano è il nostro mondo. Mentre con gli ebrei abbiamo in comune la Bibbia e i profeti. Con l’Occidente abbiamo in comune la cultura cristiana. Possiamo veramente costituire un ponte tra le parti, ma raramente siamo interpellati da chi deve prendere le decisioni importanti. Nei politici di oggi manca la sensibilità religiosa.
Ma i cristiani sono sempre di meno, come possono influire?
È vero, ma pur rappresentando meno del 2 per cento della popolazione totale, gli arabo cristiani sono ancora il 7 per cento della popolazione araba di Israele e il 58% degli studenti arabi dell’Università di Haifa sono cristiani. Le élite cristiane conservano di fatto i mezzi per pesare nella società civile araba. Per questo dico che la fuga dei cristiani è una sciagura per il Paese.
Tra i cristiani che rimangono, che sentimento domina?
Noi viviamo la situazione in una dimensione cristiana. Siamo una comunità cristiana e dobbiamo accettare la croce, accettare il mistero di Gerusalemme che dovrebbe essere una città di preghiera e di pace per tutti, mentre oggi è la città della violenza e dell’incomprensione. Anche noi non riusciamo a capire questo mistero, ma siamo invitati ad accettare di non capire e affidare la situazione alla Provvidenza senza mai perdere la speranza. Abbiamo perso terreni di nostra proprietà, abbiamo perso i fedeli che sono andati via, ma non abbiamo perso né questa speranza né la gioia di vivere e di lavorare in Terra Santa.