LA DIASPORA DEI CRISTIANI È UNA PERDITA PER LA PACE

INTERVISTA A MONS. FOUAD TWAL

Dal Giornale del Popolo del 23 giugno 2007

“Tutti parlano del processo di pace: io mi auguro che si lasci perdere il processo e si giunga finalmente alla pace, visto che il processo dura da ormai sessant’anni e non ha ancora portato a nulla”. Ci scherza un po’, ma non troppo, mons. Fouad Twal, arcivescovo coadiutore di Gerusalemme giunto a Venezia all’incontro del Comitato scientifico di Oasis per raccontare l’ormai inesorabile emorragia di cristiani che scappano dalla Terra Santa. Mons. Twal è giordano, della tribù Al Uzaizat, oriunda dalla grande tribù beduina cristiana Al Gassante. Quella – per intenderci – che combatté al fianco di Maometto contro i bizantini. Un arabo, cresciuto in terra di musulmani che ora ha la responsabilità dei cristiani cattolici che abitano nella terra in cui nacque Gesù.

Mons Twal, come giudica l’evolversi della situazione nei territori palestinesi?
La situazione drammatica della Terra Santa è sempre stata al centro dell’attenzione internazionale. Oggi viene sottolineata la situazione a Gaza, ma occorre stare attenti a non dare alla situazione di Gaza un’importanza esagerata. L’attenzione va data a tutta la crisi in Palestina: dentro questa grande crisi ci sono crisi più piccole come quella in atto a Gaza. È come guardare l’albero che brucia senza tener conto dell’incendio di tutta la foresta.

D’accordo, ma lo scorso 14 giugno una scuola cattolica a Gaza è stata attaccata e bruciata…
Quella scuola è gestita dalle nostre suore del Rosario. Sono tre, tutte giordane. Una di loro è mia cugina. La questione è che l’assenza di un Governo stabile e forte in grado di tener sotto controllo la situazione dà la possibilità a gruppi di banditi di fare queste cose. Non parlerei di un attacco di musulmani contro i cristiani. In una situazione di totale disordine è ovvio che a soffrirne di più siano i più deboli. Che in questo caso siamo noi cristiani.

Intanto Israele ha assicurato il suo appoggio a presidente palestinese Abu Mazen…
Fa bene, anche se avrebbe dovuto farlo da oltre un anno.

Come giudica la decisione di sbloccare i fondi per l’ANP?
Me ne rallegro. Non è mai tardi per fare le cose giuste. A soffrire di quel blocco sono i semplici impiegati, gli studenti, le famiglie. Gli studenti nelle nostre scuole cattoliche non erano più in grado di pagare le rette, perché i loro genitori non avevano il salario alla fine del mese. Come si è visto non è stata Hamas a pagare le conseguenze del blocco dei finanziamenti.

Lei teme un disastro umanitario a Gaza?
Spero che i responsabili delle nazioni abbiamo un po’ di cuore, di testa e di dignità: non si può far morire un milione e trecento mila esseri umani perché non si è d’accordo politicamente con un gruppo o con un altro.

La Chiesa chiede più attenzione per la comunità cristiana. Perché?
Noi chiediamo che i politici quando prendono delle decisioni concernenti il Medioriente e la Terra Santa prendano in considerazione anche la presenza dei cristiani. Non credo che i politici quando decidono considerino l’aspetto religioso. Raramente qualcuno ha chiesto il parere dei cristiani mediorientali. Eppure noi siamo là, viviamo là e possiamo essere un ponte di dialogo tra i musulmani e i cristiani. Siamo radicati in Medioriente, con la nostra origine, con la nostra cultura, con il nostro approccio. I mondo musulmano è il nostro mondo. Mentre con gli ebrei abbiamo in comune la Bibbia e i profeti. Con l’Occidente abbiamo in comune la cultura cristiana. Possiamo veramente costituire un ponte tra le parti, ma raramente siamo interpellati da chi deve prendere le decisioni importanti. Nei politici di oggi manca la sensibilità religiosa.

Ma i cristiani sono sempre di meno, come possono influire?
È vero, ma pur rappresentando meno del 2 per cento della popolazione totale, gli arabo cristiani sono ancora il 7 per cento della popolazione araba di Israele e il 58% degli studenti arabi dell’Università di Haifa sono cristiani. Le élite cristiane conservano di fatto i mezzi per pesare nella società civile araba. Per questo dico che la fuga dei cristiani è una sciagura per il Paese.

Tra i cristiani che rimangono, che sentimento domina?
Noi viviamo la situazione in una dimensione cristiana. Siamo una comunità cristiana e dobbiamo accettare la croce, accettare il mistero di Gerusalemme che dovrebbe essere una città di preghiera e di pace per tutti, mentre oggi è la città della violenza e dell’incomprensione. Anche noi non riusciamo a capire questo mistero, ma siamo invitati ad accettare di non capire e affidare la situazione alla Provvidenza senza mai perdere la speranza. Abbiamo perso terreni di nostra proprietà, abbiamo perso i fedeli che sono andati via, ma non abbiamo perso né questa speranza né la gioia di vivere e di lavorare in Terra Santa.

UNA RADICALE AL FAMILY DAY

INTERVISTA A EUGENIA ROCCELLA
dal Giornale del Popolo del’11 maggio 2007

Ne è passata di acqua sotto i ponti del Tevere da quel 1974, quando scendeva in piazza per manifestare a favore della legge sul divorzio. Eugenia Roccella è figlia di uno dei fondatori del Partito Radicale Italiano e grande amico di Marco Pannella; per anni militante del Movimento della liberazione della donna, oggi è considerata un’eretica dai suoi ex-compagni di strada. Non per aver cambiato idea su divorzio o aborto, ma per essersi schierata col fronte cattolico sui temi ora al centro del dibattito etico: eutanasia, procreazione assistita, legislazione sulle coppie di fatto. Domani sarà in piazza addirittura come portavoce del Family Day, la manifestazione promossa dal laicato cattolico, sostenuta dai vescovi e mal sopportata da una vasta fetta della maggioranza di governo.

Eugenia Roccella, perché un Family Day?
Il senso di questa manifestazione è quello di esprimere il disagio per una lunga trascuratezza che c’è stata in Italia nei confronti della famiglia. Siccome la famiglia in Italia è una realtà abbastanza solida e nella nostra cultura rimane centrale, per decenni si è pensato che si mantenesse vitale da sola. Invece c’è bisogno che sia messa al centro dell’attenzione della politica e siano presi dei provvedimenti che l’aiutino. Occorre rimodellare il welfare sulla famiglia e non, come accade ora, sugli individui.

Scusi, ma perché proprio ora se è una situazione che va avanti da decenni?
L’idea di questa manifestazione è nata dopo che l’attuale governo ha messo a punto un disegno di legge sui diritti dei conviventi (DICO, ndr) che vuole regolare le coppie di fatto. Il Family Day nasce subito dopo la proposta dei DICO, anche se non è una risposta diretta ai DICO. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dopo trent’anni di disattenzione avevamo sperato che con la nascita del Ministero per la Famiglia, introdotto da questo governo, si potesse aprire una nuova stagione di attenzione e invece la prima cosa che si fa cos’è? La legge sui Dico. Cioè qualcosa di assolutamente non necessario e che culturalmente toglie valore alla famiglia, perché ne mina l’unicità, perché dice che esistono molte forme di famiglia.

La vostra manifestazione è contro questo governo?

No. La nostra non è una manifestazione politica in senso partitico. Non è una manifestazione di parte, cioè antigovernativa.

Ma è questo governo che ha proposto i Dico, mica un altro.
Certo, certo. È stato questo governo, ma questo governo può anche fare marcia indietro. Noi abbiamo detto in tutti modi che siamo disponibili ad altre soluzioni che non prevedano un riconoscimento pubblico delle unioni di fatto, ma trovando soluzioni di tipo privatistico: i diritti della persona sì, i diritti pubblici della coppia no.

Facciamo un passo indietro. Da dove nasce questa disattenzione alla famiglia che arriva fino al tentativo – conscio o meno che sia – di ridisegnarla?

Da una parte viene anche da coloro che culturalmente volevano difendere la famiglia, la vecchia Democrazia cristiana per intenderci, e poi viene da quel lato invece di chi la famiglia voleva distruggerla. I primi, in tanti anni di governo, non hanno fatto nulla per proteggere la famiglia facendo politiche molto vecchie che non tenevano contro di quello che stava avvenendo. I secondi – a partire dagli anni 70 – hanno creato un fronte culturale che qualche studioso ha chiamato “dell’antifamiglia”. Era l’area libertaria da una parte e marxista dall’altra che faceva analisi per la distruzione della famiglia, vista come un luogo di egoismo privato, borghese. Poi c’è questa nuova cultura dei “nuovi diritti individuali” che viene promossa soprattutto dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea che propone, in sostanza, una nuova antropologia che intacca le identità personali e intacca anche il concetto di famiglia. Questa è una cultura che ha portato, ad esempio, al riconoscimento in quasi tutta Europa delle unioni di fatto e dei matrimoni tra omosessuali.

Si potrebbe obiettare: in Europa ormai tutti sono andati in quella direzione, la vostra è una battaglia di retroguardia…
Al contrario, io penso che sia una battaglia di avanguardia. Noi potremo essere gli ultimi a registrare le unioni di fatto o i primi a imboccare una nuova strada. Io ritengo che noi dobbiamo essere i primi a imboccare una nuova strada proprio perché possiamo vedere quello che già accade negli altri Paesi europei.

E cioè? Cosa sta accadendo?
Il riconoscimento delle unioni di fatto è andato di pari passo con un aumento esponenziale, per esempio, delle madri sole. Addirittura in Norvegia e in Svezia le madri sole hanno raggiunto il 50 o il 60%. La metà dei figli nasce da famiglie monoparentali. Noi vogliamo che le madri restino sole? Vogliamo la scomparsa sostanziale della paternità? Perché è questo che succede. Alla fine il padre diventa lo Stato, nel senso che il padre diventa il welfare che aiuta queste donne. Ma è assurdo che il figlio sia un appannaggio individuale della donna.

Suona strano detto da una femminista…
Io come femminista volevo e voglio ancora una intercambiabilità dei ruoli e una condivisione delle responsabilità, voglio che ci sia una madre e un padre possibilmente. Poi, per carità, le cose falliscono, le coppie scoppiano e bisogna prevedere di riparare al danno. Ma progettare il danno mi sembra francamente troppo. Non si può, cioè, progettare in partenza una forma di famiglia poco impegnativa che porta molto più spesso, rispetto ai matrimoni, alla separazione. Non parliamo di altri paesi dove ormai si punta il dito contro le unioni di fatto perché si dice che favoriscano, proprio per questa fragilità, il disagio giovanile.

Disagio giovanile?
In Inghilterra c’è stato il Rapporto Smith che ha rivelato numeri pazzeschi: il 70% della criminalità giovanile è legata a ragazzi che vengono da famiglie monoparentali. Pensi che in Inghilterra i divorzi hanno superato i matrimoni (quindi di divorzi ce ne sono tantissimi), eppure una coppia di fatto si rompe dieci volte più facilmente di un matrimonio. Noi in Italia abbiamo una situazione molto particolare: c’è una scarsissima natalità, ma abbiamo una grandissima forza della famiglia. Questa forza è un privilegio italiano da mantenere o è qualcosa che possiamo permetterci di buttare a mare?

Lei è stata una militante radicale, ha fatto la battaglia prima per il divorzio poi per l’aborto. Come è mai è diventata la portavoce del Family Day?

Io ancora oggi sarei a favore del divorzio, perché è giusto che un matrimonio civile si possa rompere. Poi chi è religioso non lo rompe, o tendenzialmente cerca di non farlo e si confronta con la propria fede. Ma proprio per questo: c’è il matrimonio civile, c’è il divorzio, perché bisogna istituzionalizzare le coppie di fatto? Che significato hanno? In questo non ho cambiato idea. Io ritengo che siano cambiati molto gli scenari internazionali e generali.

In che senso?
Io non sono assolutamente d’accordo che sia un elemento di maggiore libertà il tipo di modello che ci stanno proponendo. Per essere individualisti si tolgono all’individuo le cose che lo rendono forte: le proprie origini, le proprie radici, le relazioni. Ormai c’è l’idea di un individuo solo, senza relazioni, ma l’individuo è tale all’interno della sua esperienza. Essere figli di un uomo e una donna è un’esperienza che accomuna tutti gli uomini. Manipolare questa esperienza fondamentale dell’uomo (come d’altra parte si tende a manipolare il corpo, l’identità sessuale, la nascita attraverso la tecno-scienza) non appartiene all’orizzonte culturale delle libertà, anzi. Mi sembra che appartenga piuttosto a una concezione totalitaria.

Totalitaria? Addirittura?
Chersterton diceva che la famiglia è una cellula anarchica. Io sono d’accordissimo. La famiglia è una forma di mediazione tra l’individuo e lo Stato. La famiglia è il luogo in cui valgono prima di tutto gli affetti e i bisogni. Infatti tutte le società totalitarie hanno cercato di eliminare la famiglia. Io penso ancora che le libertà individuali siano fondamentali, ma non ritengo che quelle che oggi ci vogliono imporre siano libertà.

I suoi ex compagni radicali non sembrano pensarla così, anzi…
A miei ex compagni di strada rimprovero di non tener conto che le cose sono cambiate, non siamo più negli anni 70, le libertà non sono più solo quelle di allora. A me sembra che si stia ridisegnando un’idea totalitaria di uomo, pensiamo all’eutanasia. Ritengo che siamo di fronte a minacce profonde nei confronti della liberà personale e soprattutto dell’identità umana, del senso dell’essere umano. E penso che i radicali non abbiano capito bene in che situazione siamo oggi, e continuino a ragionare con schemi di trent’anni fa.

UN ANNO CON ROMANO

INTERVISTA A GIAMPAOLO PANSA
dal Giornale del Popolo del’11 aprile 2007

«È un bilancio tra il modesto e il mediocre. Se dovessi dare una nota, dall’uno al dieci, darei cinque». Giampaolo Pansa, celebre firma dell’Espresso e di Repubblica, gioca a dare la pagella del Governo di Romano Prodi a un anno dalla vittoria elettorale. Giornalista di sinistra, mai tenero con la propria parte politica, tratteggia uno scenario per certi versi desolante. L’unico ad uscirne a testa alta è Prodi stesso, che al momento parrebbe insostituibile.
È di manica stretta, Pansa, come mai?
Le ragioni che stanno alla base di un bilancio di questo tipo sono varie. La prima, in ordine cronologico ma anche per importanza, è il risultato elettorale. Questo fattore di instabilità numerica, legato alla legge elettorale voluta da Berlusconi e scritta da Calderoli, è un po’ all’origine di tutte le difficoltà di Prodi. A questo si aggiunge il fatto che il premier si trova molte bocche da sfamare.
In che senso?
L’Unione, se la si guarda bene, è disgregata in una serie di partiti minori. Qualche giorno fa in un’intervista con Piero Fassino ho fatto il conto di quanti sono i partiti della sinistra (non del centrosinistra). Bene, sono nove. Se contiamo Margherita e Mastella arriviamo a undici. Siamo una specie di nebulosa dove l’unico punto fermo sono i Ds, che alle elezioni di aprile sono andati di poco al di sopra del 17 per cento. Il risultato di un partito medio. Per questo nasce la carica dei centouno.
La carica dei centouno? Cos’è?
Sono i ministri, i viceministri e sottosegretari del Governo. Per una foto di gruppo non starebbero nel cortile di una scuola di campagna, bisognerebbe andare in piazza… (ride). Tanta gente da accontentare, no? Il terzo guaio è che i partiti della maggioranza fin dall’inizio hanno dimostrato di essere in continuo contrasto. È chiaro che le alleanze sono degli incontri fra diversi, ma qui io parlo di incompatibilità. È emersa una babele caotica che soltanto Prodi riesce in qualche modo a tamponare e a governare.
Queste le premesse, passiamo ai risultati…
Il bilancio di tutto questo succedersi di problemi e pasticci è che il Governo Prodi è ai minimi storici per produttività: in undici mesi ha fatto appena 34 leggi, meno della metà rispetto al primo anno del Governo Berlusconi. L’efficienza del Governo non si misura certo solo con il numero di leggi, e qualche responsabilità ce l’hanno anche le camere che fanno fatica a riunirsi, ma la difficoltà è evidente. L’unica vera legge è la legge finanziaria, che è una legge molto rigida, molto restrittiva e io penso che, nella situazione in cui si trova il Paese, sia tutto sommato giusta. L’altra cosa che è stata solo enunciata e non si è vista, anche se è difficile arrivarci, è la lotta all’evasione fiscale. È vero che da noi la pressione fiscale è la più alta d’Europa, ma l’evasione è a livelli scandalosi. In Italia qualunque Governo non abbia il coraggio di cambiare il sistema fiscale dimostra di fare ben poco. Non si è visto, poi, nulla sul fronte della riforma delle pensioni. Occorrono anche delle liberalizzazioni più spinte e robuste di quelle – pure giuste – che ha fatto il ministro Bersani.
Chi rema contro?
Principalmente due lobby. La prima è quella dei sindacati che considerano il Governo come un partner poco affidabile e quindi gli sta alle costole. Certo, questo è il mestiere dei sindacati, ma quello del Governo è di tener duro dove è necessario. L’altra pressione è quella della sinistra radicale. Qui abbiamo Rifondazione comunista, i Comunisti italiani e i Verdi che si fanno sentire di più di Ds o Margherita. Prodi quando l’avevo intervistato alla vigilia delle elezioni, tra le altre cose, mi disse che lui non voleva mediare ma governare. Constato che è stato costretto a fare esattamente il contrario: mediare, mediare, mediare.
E non era affatto facile…Prodi ha l’abilità di un vecchio commis d’étàt, di un vecchio presidente IRI, poi ha l’abilità di un vecchio democristiano e se vuoi ha anche l’abilità del cattolico collaudato. Queste tre qualità ne hanno fatto l’unico premier possibile per il centrosinistra oggi e almeno per un anno o due. Se non ci fosse stato lui, che non è certo uomo senza difetti, questo Governo sarebbe caduto mille volte e non so in che situazione si troverebbe il Paese. Senza di lui sarebbe andato a finire tutto – come diciamo noi piemontesi – “nel guardaroba dei cani”: in qualche angolo morto di un giardino incolto.
Davvero non c’è alternativa a Prodi?
In questa fase assolutamente no. Chi ci dice che un nuovo Governo otterrebbe la fiducia in parlamento? Abbiamo sempre il problema del Senato: se qualcuno fa le bizze o rimane a casa perché ha il mal di pancia, la maggioranza non c’è. Quindi Prodi, da questo punto di vista, ha un’assicurazione sulla vita assolutamente formidabile.
Ma Veltroni? D’Alema?
Quelle sono tutte balle. Per un nuovo premier dovrebbe esserci una maggioranza nuova.
Ecco, appunto, può esistere una maggioranza diversa?
Io sono convinto che, come diceva quel grande giocatore di carte che era Ciriaco De Mita, occorrerebbe sparigliare il gioco. Bisogna cercare di trovare degli alleati al centro dello schieramento in grado di sostituire queste sinistre radicali e massimaliste.
Quindi Casini?
Casini ha pochi voti.
Non mi dica Berlusconi, perché in questo caso sarebbe una grande coalizione…
Una grande coalizione potrebbe essere una buona soluzione, ma passa per il pensionamento sia di Prodi che di Berlusconi. Ma non mi pare che i due abbiano intenzioni di questo tipo. Sono tutte cose illusorie: sia la grande coalizione sia un allargamento della maggioranza al centro. Bisognerebbe trovare in Forza Italia trenta o quaranta parlamentari, soprattutto al Senato, che lascino il loro partito e si costituiscano in gruppo autonomo. Mi sembra irreale.
Lei in passato ha parlato di una guerra civile verbale in atto nel Paese. Ha visto miglioramenti di recente?
No, anzi. L’Italia si sta rivelando il Paese campione mondiale dei faziosi. Persino Bertinotti è stato contestato dai centri sociali: il massimo! Confesso che quell’episodio mi ha fatto godere… Se Bertinotti viene contestato da quelli che l’avevano sempre sostenuto e che lui ha sempre coccolato vuol dire che siamo al massimo della guerra civile verbale.
Come giudica il comportamento del Governo italiano sulla vicenda del rapimento di Daniele Mastrogiacomo?
A riguardo ho un’opinione molto radicale, ma questa – ragazzo mio – te la leggi sull’Espresso di venerdì.

ESSERE CRISTIANI IN IRAQ

INTERVISTA A MONS.JEAN BENJAMIN SLEIMAN
dal Giornale del Popolo del 7 aprile 2007

Mons. Jean Benjamin Sleiman è, dal 2001, l’arcivescovo latino di Baghdad. La sua analisi sulla situazione dell’Iraq a quattro anni dalla fine del regime di Saddam è lucida e non si lascia andare né al facile catastrofismo né a un ingenuo ottimismo. I cristiani iracheni vivono il dramma di una minoranza pacifica stretta nella morsa di un clima di violenza e la loro presenza millenaria potrebbe presto estinguersi. Come possono i cristiani occidentali aiutare i loro fratelli iracheni? La risposta di mons. Sleiman è sorprendente: innanzitutto testimonino, là dove sono, la ricchezza dell’esperienza cristiana.
Mons. Sleiman, dopo quattro anni dalla deposizione di Saddam Hussein, come giudica la situazione del Paese?
La deposizione di Saddam è il primo frutto della guerra riuscitissima degli USA. Il dopoguerra che coincide con il dopo-Saddam è una catastrofe a tutti i livelli. La tirannia dispotica del vecchio regime ha fatto posto a delle tirannie fondamentaliste e mafiose. La violenza ha fatto il suo nido ovunque e lo stato di diritto non riesce veramente a ripartire.
Dopo mesi di scontri interetnici qualcuno ha incominciato a parlare seriamente della possibilità di dividere il Paese in tre Stati. Lo ritiene auspicabile?
La criminalità interetnica e interconfessionale è una piaga dell’attuale Iraq. Ma niente giustifica la spartizione del Paese. Ma non si tiene nessun conto di molte minoranze presenti nel Paese e che non hanno nessun interesse a questa spartizione. C’è anche un’altra considerazione di cui bisogna tenere conto: detta spartizione significa appropriazione da parte dei gruppi dominanti delle risorse del Paese. Il che si tradurrà nel privare gli altri di queste risorse. Se il centro non possiede risorse petrolifere, le altre regioni non condivideranno questa risorsa con una parte importante della popolazione. La divisione si avvererà quindi come un progetto di nuove guerre.
Quali sono le possibilità di una riconciliazione nazionale?
Ci vuole innanzitutto la volontà politica, irachena e internazionale. È indispensabile anche un consenso internazionale, almeno delle grandi potenze, sull’Iraq. Se esiste questa volontà, si prenderanno delle misure serie per ristabilire la pace, per difendere la società civile e iniziare un’opera di riconciliazione che va al di là dei semplici compromessi politici. Il conflitto tra sunniti e sciiti richiede, per essere risolto, ma direi anche demitizzato, una rilettura della storia dell’Iraq con un approccio diverso a quello tribale. Questo vuol dire che non si può continuare ad accusare i contemporanei di responsabilità imputate a individui o gruppi del primo secolo della storia islamica.
Da più parti in Iraq come in Occidente si chiede il ritiro delle truppe della coalizione internazionale. Pensa che questa presenza sia ancora utile per la sicurezza del Paese?
Certo, questa presenza rimane utile. Il Governo iracheno comunque la richiede. Ma io parlo anche di una dimensione morale: quelli che hanno disfatto il Paese devono moralmente ricostruirlo. Lasciarlo in piena tempesta non mi sembra né etico né proficuo.
Baghdad è una delle città più violente del Paese. Negli ultimi anni alcune chiese sono state attaccate e alcuni sacerdoti rapiti (uno addirittura ucciso). Lei ha paura per la sua incolumità?
Innanzitutto, il prete ucciso come anche il pastore assassinato, lo sono stati a Mossul, nel Nord. La violenza anticristiana di quella regione supera da anni tutti i limiti. Comunque tutti siamo impauriti e tutti corriamo rischi. Io, comunque, sono figlio della Chiesa. Mi affido alla sua preghiera, all’intercessione dei suoi santi e mi abbandono nelle mani di Colui che si abbandonò nelle mani del Padre.
Secondo fonti di Asianews Milizie islamiche non governative a Baghdad e Mossul ordinano di riscuotere dai cristiani la “jizya”, l’imposta dei tempi dell’Impero ottomano che garantiva il permesso ai non musulmani di praticare la loro fede e ne assicurava la protezione. Può confermare la notizia?
La vera difficoltà dei non musulmani nei Paesi islamici, anche in tempi di pace, è quella di essere ridotti a cittadini di seconda classe, costretti ad acquisire la propria incolumità morale o fisica al prezzo della sottomissione. Tradizionalmente, la sottomissione era concretizzata col pagamento di imposte, di cui la “jizya” o , letteralmente, l’imposta per salvare la propria testa. I gruppi fondamentalisti hanno quindi effettivamente restaurato queste imposte laddove hanno il controllo.
I cristiani sono più o meno liberi di professare la propria religione rispetto ai tempi di Saddam?
La libertà dei cristiani nei paesi islamici, anche sotto Saddam, ha sempre ubbidito a delle regole: il culto va rispettato ma intra muros. I limiti alla libertà di coscienza sono presenti nella politica, nell’amministrazione e davanti alla legge.
Come giudica il testo della nuova Costituzione in materia di libertà religiosa?
La nuova Costituzione riprende con la mano destra quello che aveva concesso con la sinistra. I grandi principi di libertà di coscienza e di opinione sono virtualmente neutralizzati dall’articolo 2 della Costituzione che traduce nelle leggi la supremazia dell’Islam come religione di Stato: tutte le leggi che non concordano con la sharia sono nulle.
Oggi molti cristiani decidono di abbandonare il Paese. È un processo inevitabile?
La presenza dei cristiani in Iraq è millenaria. Ma oggi rischia veramente la scomparsa. L’emigrazione è diventata un esodo inarrestabile. L’aumento quotidiano della violenza, delle minacce e dei crimini uccide la speranza. I cristiani si sentono oramai stranieri e indesiderati nella loro propria patria.
Quale può essere il ruolo dei cristiani per il futuro del nuovo Iraq?
Un ruolo di pacificatori e di mediatori nonché creatori di cultura e di apertura al mondo. Ma per svolgere questo ruolo bisogna che esistano ancora!
Come noi cristiani occidentali possiamo aiutare la comunità cristiana irachena?
Innanzitutto, nel dare l’esempio di comunità credenti e proponendo alle società la ricchezza dell’esperienza cristiana. Poi bisogna attirare l’attenzione sui drammi dei cristiani in questa area del mondo. Nel dialogo con i musulmani, vincendo una certa ingenuità, bisogna chiedere una vera reciprocità, esigendo una rilettura religiosa moderna delle fonti. Infine, tradurre la comunione in gesti di amicizia, di solidarietà concreta, di scambi ecc…

Il compositore di classica che scala le classifiche pop

INTERVISTA A GIOVANNI ALLEVI

dal Giornale del Popolo del 31 marzo 2007

La scarpetta da ginnastica rimbalza elegante sui pedali del Bosendorfer nerissimo. Le dita affondano veloci nella lunga tastiera lucida. Il casco di riccioli scuri si piega in avanti come per dare forza alla musica che esce dalla pancia del pianoforte. Giovanni Allevi è così, un giovanotto timido e dinoccolato che se si siede al piano riesce a togliere il fiato anche al più cinico dei critici musicali. Giovanni Allevi dice che di mestiere fa il compositore, mica solo il pianista. Prende carta e penna e riempie righe di pentagramma inventando melodie e armonie che poi finiscono nei suoi bellissimi dischi di piano solo. A volte si sveglia la notte con una melodia in testa. Quando gli capita si alza dal letto e corre subito a buttarla giù, perché non gli scappi via come una falena impaurita. Giovanni Allevi è così, un giovanotto timido e dinoccolato di 38 anni al quale, per inaugurare il suo ultimo tour (che segue alla pubblicazione di Joy, già disco d’oro) hanno aperto le porte dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. La sala Santa Cecilia, quella più grande, per i concerti sinfonici. A maggio andrà per la terza volta nel tempio del Jazz americano, il Blue Note di New York. Lo invitano in Cina e Giappone. Tra le tappe di Roma e New York c’è anche quella di stasera al Teatro di Varese. A dicembre suonerà alcune sue composizioni con i Berliner Philharmoniker. Insomma, Giovanni Allevi mette d’accordo davvero tutti. Provateci pure, se ci riuscite, a dare una definizione della sua musica, una musica che viene accolta con lo stesso entusiasmo nelle sale da concerto della musica colta come nelle hit parade della musica Pop. Qual è il suo segreto? Abbiamo provato a chiederglielo. Lui ha risposto con il suo accento di Ascoli Piceno, misurato ed elegante come la sua musica.
Tutti sembrano unanimi nel sostenere che la tua musica non sia etichettabile. Ma se fossi costretto, pistola alla tempia, come la definiresti?
La definirei musica classica contemporanea. Innanzitutto perché è musica scritta, nulla è lasciato all’improvvisazione e poi perché nasce in stretta relazione con la tradizione musicale occidentale dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. C’è poi anche l’influenza di quel che è arrivato dopo, ovviamente.
Usciamo da un secolo in cui compositori “colti”, chi più chi meno, hanno deciso di rompere con la tradizione musicale occidentale con il risultato che dalle sale da concerti si usciva un po’ tristi e un po’ accigliati. La tua musica non fa questo effetto? Perché secondo te?
Io ho preso le distanze dal serialismo e la dodecafonia, metodi di scrittura molto intellettuali e che esprimono l’ansia del vivere caratteristica di un secolo difficile e violento come è stato il Novecento. Penso che quel tipo di musica non sia più attuale. Oggi c’è bisogno di un ritorno alla ricerca della bellezza. È questo quel che cerco di fare io con la mia musica.
La musica colta del secolo scorso sembrava non essere più in grado di affermare un senso positivo dell’esistenza…
Certamente e questo ha provocato anche un allontanamento dal sentire comune. Oggi mi sembra che le cose siano cambiate e che la gente desideri trovare nella musica l’espressione di una positività, e questo vale soprattutto per i giovani.
Oltre a te stesso, a chi affideresti l’esecuzione della tua musica?
Devo dire che non tengo particolarmente che la mia musica sia suonata da grandi interpreti. Quello che mi interessa è che a suonarla siano i giovani musicisti. Questo sì che mi fa piacere.
Ma capita già?
Certo. Sempre più spesso giovani interpreti inseriscono nei loro spettacoli di musica classica alcuni miei brani. So che in alcuni conservatori si studia sui miei spartiti ed è capitato che una pianista abbia vinto un concorso internazionale con un programma interamente basato su miei composizioni.
A dicembre suonerai con i Berliner Philharmoniker. Li hai cercati tu o ti hanno cercato loro?
Né l’uno né l’altro. È capitato grazie a persone che hanno insistito perché avvenisse questo incontro.
Che cosa suonerete?
Ho incominciato a scrivere brani per orchestra apposta per loro. Poi suoneremo anche alcuni miei pezzi per pianoforte e orchestra che ho già scritto.
Uno di questi pezzi si intitola “Foglie di Beslan”, di che cosa si tratta?
È un brano che mi ha chiesto di scrivere nel 2004 l’Orchestra sinfonica siciliana in occasione della tremenda strage dei 300 bambini della scuola 1 di Beslan, appunto.
È un tema molto forte, un tema civile, che sembra discostarsi dall’indole più personale della tua musica…
La genesi effettivamente è stata l’opposto di quel che capita per i brani che di solito scrivo. In questo caso ho cercato di esprimere in musica quel che ho provato guardando in televisione le immagini della strage. Solitamente, invece, è la musica, è la melodia, che mi viene a trovare senza che io faccia nulla per cercarla.
A quando un tuo concerto a Lugano?
Speriamo presto. Non sono mai stato a suonare a Lugano.
Sì, speriamo davvero.

LA RIVOLUZIONE ZAPATERA

INTERVISTA A FERNANDO DE HARO
Giornale del Popolo, 29 marzo 2007

Trattative di pace con l’ETA, processo agli attentatori dell’11 marzo, politica sull’educazione e sulla vita. Questi i temi sul piatto del dibattito politico spagnolo a tre anni dagli attentati di Atocha e dalla conseguente ascesa al potere del segretario del Partito socialista José Luis Rodríguez Zapatero. Ferdinando de Haro è dall’ottobre del 2003 il direttore dei servizi informativi di Popular television, il canale televisivo della Conferenza episcopale spagnola. Con lui abbiamo parlato della Spagna di oggi e di come è governata. Quel che ne emerge è un quadro inquietante da una parte e desolante dall’altra. Quella che viene definita la “rivoluzione zapatera”, infatti, negli ultimi mesi ha mostrato il suo vero volto: quello di minare l’unità culturale del popolo spagnolo. Dall’altra parte della barricata, però, non sembra esserci una formazione politica pronta a dare battaglia e sembra difficile che qualcuno intenda ricostruire sulla terra bruciata dal passaggio delle truppe di Zapatero. E i cattolici? Da questa tempesta – come spesso capita nei momenti di difficoltà – sembrano uscirne ritemprati.
De Haro, partiamo dall’ETA. Lo scorso 10 marzo il Partito Popolare ha convocato una grande manifestazione a Madrid contro il processo di pace promosso dal Governo spagnolo. Perché ci si oppone a un processo di pace?
La manifestazione del Partito Popolare, alla quale hanno aderito 200 organizzazioni della società civile, è stata convocata per protestare contro la decisione di concedere gli arresti domiciliari a Inaki de Juana Chaos, un terrorista dell’ETA condannato per 25 omicidi. La decisione è stata presa cedendo alla richiesta dell’uomo che aveva incominciato lo sciopero della fame. È giusto opporsi a questo processo di pace perché la pace che si cerca di raggiungere, in questo caso, è una pace senza giustizia. Il governo di Zapatero vuole arrivare alla pace facendo concessioni politiche ai terroristi senza tener conto delle mille vittime che l’ETA ha fatto finora. Ora il Governo concede all’ETA ciò per cui questi terroristi hanno ucciso. Il problema è che i terroristi non hanno ancora abbandonato le armi, come è accaduto in Irlanda del Nord dove le concessioni sono seguite solo al disarmo dell’IRA. Qui accade il contrario: prima si parla di concessioni politiche e poi si discute del disarmo. Intanto gli attentati continuano come abbiamo visto il 30 dicembre scorso all’aeroporto di Madrid dove sono morte due persone e come vediamo per le strade dove vengono incendiate auto e autobus.
Zapatero dice che è necessario porre fine alla violenza con il dialogo. Se non è possibile dialogare, qual è l’alternativa?
Si può dialogare solo se i terroristi decidono di abbandonare la lotta armata. Come si può dialogare con qualcuno che al tavolo delle trattative viene con una bomba in mano? Come si può discutere con qualcuno che minaccia di uccidere se non ottiene quello che chiede? Questo lei lo chiama dialogo?
Da alcune settimane è in corso il processo per la strage dell’11 marzo. Alcune inchieste del quotidiano El Mundo sostengono che ci fu un ruolo dell’ETA nell’organizzazione dell’attentato. Che opinione ha a riguardo?
In realtà neanche El Mundo sostiene con certezza che ci fu un ruolo dell’ETA. Il problema è che la questione non è chiara, mentre il Governo sostiene che tutto è stato chiarito come ha detto lo stesso Zapatero ancora l’altro ieri. Ma in questa storia nulla è chiaro e a confermarlo ci sono le prime quattro settimane del processo. Non è certa la partecipazione dell’ETA, ma di questa possibilità il Governo non vuole neanche che si parli. Nel frattempo è cominciato un altro processo a carico di Miguel Ángel Santano Soria, il capo della polizia scientifica che è accusato di aver falsificato i documenti dell’indagine, in particolare di aver fatto sparire da un rapporto un passaggio che parlava proprio della possibilità di una connessione tra ETA e terroristi islamici. È noto che Santano Soria è un uomo di fiducia di Alfredo Perez Rubacaba, il ministro dell’Interno del Governo Zapatero. I sospetti sulla connessione tra gli islamisti dell’11 marzo e l’ETA \nnon sono dimostrati, ma il Governo deve andare fino in fondo nelle indagini per non lasciare dubbi a riguardo. È necessario arrivare a una certezza.
Come spiega l’atteggiamento del Governo?
Zapatero non vuole che si parli ancora a lungo dell’11 marzo perché sa che la sua vittoria elettorale è il risultato diretto di quegli attentati, per questo chiede un processo rapido.
Il governo spagnolo sta mettendo mano a una riforma degli Statuti di autonomia in Spagna. Qual è l’obiettivo di questa riforma? E quali sono le ragioni che la muovono?
In Catalogna i socialisti sono andati al governo con i nazionalisti e i comunisti e hanno modificato lo statuto di autonomia della regione. Si è trattato di una vera e propria riforma costituzionale che ha cambiato il modello di Stato spagnolo. Il modello di Stato descritto dalla Costituzione del 1978 è un modello quasi federale, ma con la riforma di questi statuti ci si è avvicinati al modello confederale. Zapatero ha appoggiato questa riforma per tre ragioni. La prima è quella di avere l’appoggio politico dei nazionalisti a livello nazionale. La seconda è per isolare il Partito Popolare. La terza ragione è che, essendo un rivoluzionario, vorrebbe cambiare la Costituzione del 1978 nata dalla transizione seguita alla morte di Franco con l’accordo dei partiti moderati. Con la modifica di questi statuti non è solo il modello di Stato a cambiare ma vengono introdotti nuovi “diritti fondamentali” che non erano riconosciuti dal testo del 1978. Sto parlando dell’eutanasia, dell’aborto, dei matrimoni omosessuali, della clonazione umana. Con la riforma degli Statuti della Catalogna e dell’Andalusia, di fatto, si modifica la Costituzione anche in materie sociali ed etiche.
Come è possibile?
Questi statuti sono propriamente costituzioni che hanno un preambolo che parla dei diritti fondamentali. I diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione spagnola del 1978 sono differenti da quelli riconosciuti dagli Statuti di Catalogna e Andalusia. Visto che Zapatero non può toccare il testo del ’78, sta facendo passare una riforma costituzionale dalla porta di servizio.
Perché qualcuno parla di dissoluzione dell’unità del popolo spagnolo?
Con questa riforma degli statuti il modello di Stato del 1978 viene meno e la Catalogna, ad esempio, ha ottenuto un potere totale su praticamente tutti gli aspetti legislativi. Viene poi riconosciuto un rapporto bilaterale tra la Catalogna e il Governo centrale sul modello confederale, senza che questo rapporto esista con le altre regioni. L’unità della Spagna è una realtà vincolata alla tradizione cattolica e a una certa tradizione socialista non radicale con le quali Zapatero vuole che il Paese prenda le distanze. L’unità dello Stato spagnolo, sancita dalla Costituzione del 1978 è un patto fra comunisti, cattolici e un certo socialismo classico che potremmo definire socialdemocratico. Questo patto riconosce una storia e una cultura comune. L’unità dello Stato rispecchia l’unità culturale e religiosa del popolo e si mette in discussione la prima per intaccare la seconda.
Al progetto politico e culturale di Zapatero si sono sempre opposti i vescovi spagnoli. L’ultimo atto di questa opposizione è un documento del primo marzo che critica i decreti attuativi della legge sull’educazione. Di cosa si tratta? Qual è la loro preoccupazione?
Zapatero ha fatto una riforma dell’educazione molto statalista. In Spagna il 30 per cento dell’educazione è in mano alla società civile e lo Stato finanzia queste scuole pubbliche che nascono da un’iniziativa sociale. Con questa riforma il Governo di fatto riduce la libertà di queste realtà educative imponendo maggiori vincoli e controlli da parte dello Stato. Un’altra questione è l’introduzione di un corso chiamato “Educazione alla cittadinanza” che di fatto è un corso in cui si insegna una sorta di “morale di Stato” relativista. Di fatto i contenuti di questo corso violano la libertà di coscienza perché si tratta di una forma di confessionalismo laicista. L’ultimo aspetto che ha fatto reagire i vescovi è stata la marginalizzazione dell’ora di religione. Questa riforma sta andando avanti senza il consenso sociale, il metodo è quello “rivoluzionario” in cui un’élite porta avanti un progetto ideologico senza fare i conti con il popolo.
Ci sono problemi anche con la politica sulla vita…
Sì, il Parlamento ha proposto un disegno di legge che prevede la legalizzazione della clonazione umana. Dopo tre anni di Governo Zapatero la Spagna è diventata l’avanguardia “rivoluzionaria” della ricostruzione della tradizione occidentale: abbiamo il matrimonio omosessuale, il divorzio abbreviato, la clonazione umana, una riforma dell’educazione che è contro la libertà di scelta e di coscienza e abbiamo un progetto volto a distruggere il consenso costituzionale raggiunto tra destra e sinistra e l’unità culturale del Paese. A questo si aggiunge un processo di pace che cede al ricatto dei terroristi. Un quadro fantastico, non trova?
Inquietante davvero. Ma questo processo è irreversibile?
Probabilmente sì. Perché il partito di opposizione, il Partito Popolare, è debolissimo dal punto di vista culturale e non mi sembra in grado di intraprendere la battaglia che occorre combattere. Nel caso torni al governo, ad esempio, non è chiaro se manterrà o meno la legge sul matrimonio omosessuale. Oppure abbiamo visto come non ha fatto opposizione contro la legge sulla clonazione umana. Il Partito popolare è come complessato: ha paura di apparire come un partito confessionale e ci tiene a mostrare a tutti i costi di essere un partito moderno. Non mi sembra disposto a combattere su temi come la vita e la famiglia. Forse qualcosa farà per l’educazione, ma non ne sono sicuro.
Come si pongono i cattolici in questo contesto?
Questo periodo è stato drammatico per i cattolici, anche se non tragico. Il problema dei cattolici spagnoli è che hanno ricevuto come eredità dal periodo di Franco una concezione di cattolicesimo passivo, intimistico, privo della coscienza di un loro possibile ruolo sociale. Negli ultimi tre anni ci sono molti cattolici che hanno incominciato a muoversi, in alcuni casi anche scendendo in piazza, sul tema della libertà di educazione e della difesa della vita. C’è stato qualcuno tra i cattolici che ha risposto in maniera reattiva proponendo una posizione culturale ideologica: «la Spagna è cattolica e per questo così non va». Per tanti, invece, è stata un’occasione per maturare una maggior chiarezza su quale sia il valore del cattolicesimo all’interno della vita sociale di un popolo. È stata anche un’occasione per comprendere meglio come i cattolici siano un soggetto sociale che ha un valore in sé, un’identità propria, il cui ruolo non può essere sostituito da nessun partito politico.

L’INDONESIA E’ A UN BIVIO

INTERVISTA A MARIA LAURA CONTE
Giornale del Popolo, 9 febbraio 2007
«Ci si deve arrendere alla complessità di questo enorme arcipelago. Tredicimila isole, 230 milioni di abitanti, 1000 etnie, 250 lingue. Provare a capire questo Paese è un grandissimo esercizio di sguardo sulla complessità. Noi in Occidente facilmente tendiamo ad applicare griglie mentali costruite sulla nostra tradizione che qui, purtroppo non reggono. Occorre cambiare proprio la prospettiva». È con un misto di stupore e incredulità che Maria Laura Conte, giornalista veneziana e membro del Centro Internazionale di Studi e Ricerche Oasis, racconta la “sua” Indonesia. Ha appena dato alle stampe per le edizioni Marcianum Press “Dove guarda l’Indonesia – Cristiani e musulmani nel Paese del sorriso”, un libro-reportage che prova a far luce su una realtà affascinante e, appunto, di una complessità disarmante. Le spiagge da sogno di Banda Aceh, il terribile incubo dello tsunami, certo. Ma chi sa che in Indonesia vivono più musulmani che in tutti i Paesi arabi del Nord Africa e del Medioriente? «Generalmente – dice ancora Maria Laura – quando pensiamo a un musulmano pensiamo a un arabo. L’Indonesia ci costringe a cambiare approccio a questa religione: non è un monolite, ma ha tanti volti e tante traduzioni storiche e anche tradizionali popolari».
Che Islam è, allora, quello indonesiano?
L’Islam è arrivato qui, come racconta Marco Polo nel Milione, «sulle navi dei mercatanti saraceni» e non si è propagato con la spada come nel bacino del Mediterraneo. Attraverso questi incontri e scambi, questa religione si è diffusa nel Paese lentamente impastandosi con le tradizioni locali, che a loro volta avevano già conosciuto l’Induismo e il Buddismo. Il risultato di questo lento processo, che si conclude nel XVI secolo, è un Islam che ha le caratteristiche proprie di questa terra.
In che senso?
Uno dei principi fondamentali della tradizione indonesiana, ad esempio, è quello che viene chiamato rukun. Il rukun è un valore che impone di evitare tutti gli atteggiamenti che possono stravolgere l’armonia. Più che un principio di armonia è un principio di elusione del conflitto. Fin da piccoli si è educati a non creare increspature nelle relazioni attorno a sé. Il compito dell’uomo, dunque, è quello di non infrangere il rukun né di rovesciarlo. Cercare un vantaggio per sé senza l’approvazione di tutta la comunità o combattere per progredire individualmente senza la partecipazione del gruppo sono gesti considerati offensivi. L’Islam indonesiano ha assorbito questa visione e ha ereditato un rito tradizionale, lo slametan (un pranzo rituale), che viene riproposto tale e quale nelle feste islamiche ma con l’aggiunta di una lettura del Corano.
Un Islam quasi idilliaco…
Un attimo, fammi finire… Dopo la colonizzazione portoghese e olandese e l’arrivo del cristianesimo, cominciano ad arrivare predicatori legati al mondo arabo e aumentano i pellegrinaggi alla Mecca. Nasce così una maggiore considerazione per l’idea di Umma, l’unica comunità islamica. Di fatto si vanno a formare due anime: una più vicina alla tradizione indonesiana e una che si riconosce nella vicinanza con il Mediorente. A seguito delle dinamiche del mondo globale anche qui sono arrivate le varie influenze dell’islam fondamentalista. È questa nuova presenza, oggi, il vero problema dell’Indonesia. Con il fondamentalismo è arrivato anche il terrorismo islamico legato ad al Qaida che ha colpito nel 2003 e nel 2005. Questi estremismi non hanno nulla a che vedere con la tradizione dell’Islam locale; sono importati da fuori e rischiano di stravolgere il “volto sorridente” del Paese.
Qual è il peso del fondamentalismo?
Da un sondaggio realizzato recentemente dal Liberal Islamic Network, un’organizzazione moderata, emerge che il 18% della popolazione musulmana sostiene i gruppi estremisti, mentre il 6,5% vi partecipa attivamente. Percentuali modeste se considerati in sé, ma se riferiti alla popolazione di oltre duecento milioni di persone, assumono dimensioni preoccupanti.
Come si propaga l’estremismo?
In una baraccopoli di Giakarta ho conosciuto padre Ignatius Sandyawan, detto padre Sandy, un gesuita. Gestisce un’associazione per la cura di poveri e dei senza tetto e i suoi volontari sono per la maggior parte musulmani. Mi diceva però che i fondamentalisti del suo quartiere sono pagati per fare proselitismo. Questa è gente che se non ricevesse soldi dai fondamentalisti morirebbe di fame. In un Paese dove 37 milioni di persone vivono in condizioni di povertà è facile far leva sulla povertà e sulla disperazione.
E i cristiani? Come vivono il rapporto con i musulmani?
I cristiani che ho incontrato a Giakarta sono tutti assolutamente aperti all’incontro e al dialogo con la maggioranza musulmana. Partecipano ai tavoli di impegno per la salvaguardia della tradizionale tolleranza indonesiana. Nell’ufficio per il dialogo interreligioso della Curia di Giakarta lavora anche una musulmana. Curioso, no? Quando furono giustiziati i tre cristiani a Poso, a Giakarta i cattolici sono scesi in piazza per protestare e al loro fianco c’erano numerosi musulmani. Questi cristiani vivono la loro fede nella tranquillità, tutto sommato. Anche se ultimamente è diventato normale che nel periodo di Natale o delle grandi feste cristiane le autorità lancino l’allarme per il rischio di attentati islamici alle chiese. Ma anche qui: ad offrirsi per fare la guardia alle chiese sono dei musulmani.
Schezi?
Te l’ho detto che le cose sono veramente complicate laggiù.
Ma i cristiani non sono terrorizzati?
Il rischio di attentati c’è, ma è vissuto con molta tranquillità rispetto a quello che noi ci aspetteremmo. Non sto dicendo che non ci sono problemi. Ad esempio: da qualche tempo per costruire una chiesa occorre, oltre ai permessi ufficiali, anche il nulla osta di tutto il vicinato. Così basta che ci sia un fondamentalista islamico che si oppone e la chiesa non può essere costruita. Si scende quindi in piazza o per protestare contro la chiesa o per protestare contro il divieto.
Eppure nonostante le minacce e le difficoltà la comunità cristiana non si è chiusa su se stessa…
Ho incontrato gente vivace, attenta, presente nella società. Tra i poveri, nella scuola, negli ospedali e anche nel mondo dell’informazione. A Giacarta ho conosciuto padre Greg Soetomo, gesuita, direttore di Hidup che insieme a Raymond Toruan, ex direttore del Jakarta Post, il principale quotidiano indonesiano di lingua inglese, ha promosso e anima un gruppo di un centinaio di giornalisti cattolici impegnati a vigilare sulla libertà di stampa, sulle pieghe che prende l’informazione. Il loro problema è capire quale può essere il ruolo di una minoranza di giornalisti cristiani inseriti nei media in cui la maggioranza degli operatori e dei destinatari è musulmana. Questo è solo un esempio di una presenza cristiana viva e critica: aperta alle sfide della realtà.
Dove guarda l’Indonesia?
Siamo in una stagione decisiva per capire se questo Paese riuscirà nel rispetto della sua tradizione a mantenersi – come dice il suo slogan – «unito nella diversità» o se prenderà la deriva dettata dalla crescita nel Paese delle tendenze fondamentaliste. Questa resta una domanda aperta. Quel che penso è che occorra far conoscere il più possibile l’esperienza di questo Paese perché è utile per un approccio all’Islam anche in occidente. Sarebbe interessante che in Europa si desse più spazio alle voci dell’Islam indonesiano che costituiscono comunque un coro interessante nel panorama musulmano. Valorizzare all’estero queste voci realmente moderate darebbe loro più più forza all’interno del Paese.

SCIITI CONTRO SUNNITI, E L’IRAN NE APPROFITTA

INTERVISTA A MAGDI ALLAM
Giornale del Popolo, 5 febbraio 2007

Iraq e Libano come principali campi di battaglia di una resa dei conti della lotta fratricida tra sunniti e sciiti fomentata dall’Iran per destabilizzare tutto il Medioriente in funzione anti- israeliana e anti-americana. Questa l’analisi di Magdi Allam, vicedirettore del Corriere della Sera, nel tentativo di spiegare l’escalation di violenza certamente in Iraq, dove non si risparmiano dagli attentati neanche le moschee, ma anche in Libano e in Palestina (dove negli ultimi due mesi gli scontri inter-palestinesi hanno fatto più del doppio dei morti dei blitz israeliani). Da una parte il fronte sannita composto da Egitto, Arabia Saudita, Turchia e Giordania, dall’altro quello sciita guidato dall’Iran, sostenuto dalla Siria, da Hezbollah e i palestinesi di Hamas (sunniti ma vicini ad Ahmadinejad nel desiderio di distruggere Israele). Sciiti contro sunniti. Sunniti contro sciiti. Un odio che va avanti da 1300 anni da quando, anche allora per ragioni di predominio sul Medioriente, il cugino di Maometto, Alì, fu ucciso nella lotta per il predominio del Califfato. Non sembrerebbe cambiato molto. «Lo scontro tra sunniti e sciiti in Iraq – dice Magdi Allam al GdP – è sicuramente un elemento di grande tensione nella regione considerando che l’Iran, che è il Paese sciita per antonomasia, soffia sul fuoco della guerra civile. Una guerra civile vera e propria in Iraq sarebbe cavalcata dall’Iran per estendere la destabilizzazione anche nei Paesi vicini dove gli sciiti sono minoranza insoddisfatta». Sono il 20% in Arabia Saudita, il 60% in Bahrain, il 30% in Kuwait, il 40% in Libano. Gli sciiti vivono un complesso di discriminazione religiosa (sono considerati eretici dai sunniti) su cui l’Iran vorrebbe far leva. «Il rischio che ci possa essere un contagio di tensione confessionale tra sciiti e sunnti anche al di fuori dello scacchiere iracheno – continua Allam – è una realtà con cui occorre fare i conti seriamente». Ma quella in Iraq è diventata una guerra civile di stampo religioso? «Il conflitto non è in sé religioso e non si tratta ancora di una guerra civile tra sciiti e sanniti – dice ancora il giornalista italo-egiziano. C’è un tentativo di provocare questa guerra civile, ma la radice della violenza è legata al terrorismo patrocinato da al-Qaida e da elementi al passato regime di Saddam che fa leva sulla malcontento dei sunniti che si sentono privati del monopolio del potere. Ma non cadiamo nell’errore di immaginare che la questione confessionale sia all’origine della guerra civile. È un approdo a cui si vorrebbe portare la violenza attualmente in corso in Iraq». Ma la guerra civile c’è o non c’è? «Per guerra civile si intende la contrapposizione tra forze regolari o non regolari che fanno riferimento all’insieme della comunità. Ora, all’interno degli sciiti quelli che sono coinvolti in questo scontro violento con i sunniti sono quelli legati alla fazione di Moqtada al Sadr, ma non è la maggioranza degli sciiti. E la stessa cosa vale per i sunniti: è una minoranza che mette a ferro e fuoco il Paese». Come reagisce il mondo musulmano a questo stillicidio di morti? «Io ho parlato di assordante silenzio. Questo silenzio è vergognoso perché sembra che ci si possa indignare soltanto quando si deve dare addosso ai non musulmani, come è avvenuto dell’aggressione verbale a Benedetto XVI dopo il discorso di Ratisbona». E come giudica la posizione dell’opinione pubblica in Occidente? «È altrettanto vergognoso che da parte dell’Occidente non si spenda una sola denuncia a livello di governi e di istituzioni, quando ci si è sentiti in dovere di scatenare il finimondo alla vigilia della condanna a morte di Saddam Hussein. Quindi un Occidente che si infervora, che si mobilita per salvare la vita per uno dei più sanguinari criminali del Dopoguerra e che invece è del tutto silente quando giorno dopo giorno gli iracheni vengono massacrati a centinaia secondo degli ordini di morte che sono prestabiliti e che avvengono con cadenza quotidiana».

"ECCO PERCHE’ I PACS NON SERVONO"

INTERVISTA AL PROF. FRANCESCO D’AGOSTINO
Giornale del Popolo, 2 febbraio 2007

Il Parlamento italiano ha da pochi giorni dato il via all’iter che dovrebbe portare alla stesura e all’approvazione di una legge che regola le coppie di fatto. Non è ancora chiaro quale sarà il risultato finale. Il Governo parla di una “via italiana” alla soluzione del problema del riconoscimento dei diritti dei conviventi, ma all’interno della maggioranza ognuno dice la sua. Per chiarire i termini del dibattito in corso abbiamo intervistato il prof. Francesco D’Agostino, docente di Filosofia del Diritto all’Università di Tor Vergata a Roma e presidente onorario del Comitato Nazionale di bioetica.
Prof. D’Agostino, quali sono i termini della discussione?
In Italia, come in altri Paesi, il dibattito sulle coppie di fatto è straordinariamente viziato da preconcetti ideologici. I fautori del riconoscimento delle coppie di fatto non sono in grado di spiegare quali siano le autentiche esigenze sociali che giustifichino quelli che per semplicità vengono per ora chiamati Pacs. Per “autentiche esigenze sociali” intendo dire esigenze sociali che non possono essere autogarantite, nella loro autonomia e responsabilità, dalle persone come singole. Quando si chiedono i Pacs si vuole dare un riconoscimento legale a vincoli affettivi che non si capisce, se non per ragioni ideologiche e simboliche, perché debbano essere meritevoli di un riconoscimento pubblico. Se il matrimonio ha un riconoscimento pubblico è perché il matrimonio ha una finalizzazione generazionale, garantisce l’ordine delle generazioni. È così in tutte le culture e in tutte le epoche. Al di fuori del matrimonio non c’è bisogno di un altro istituto pubblico che risponda a questa finalità.
Qual è il punto, allora?
La verità è che dietro i Pacs si nasconde non il bisogno di dare una risposta ad esigenze sociali, ma il bisogno di dare un riconoscimento simbolico e non sociale all’omosessualità.
I vescovi italiani si oppongono a qualsiasi legge in merito…
È un dato di fatto che i vescovi assumano queste posizioni, ma io nego categoricamente, però, che queste posizioni siano propriamente ecclesiali. È come quando la Chiesa si batte contro la pena di morte, ma è evidente che la contrarietà alla pena di morte non sia un’esclusiva dei cattolici.
Beh, è innegabile che la Chiesa stia combattendo la sua battaglia…
I laicisti italiani hanno tutto l’interesse ad appiattire il dibattito tra laici e cattolici. I laici a favore dei Pacs e i cattolici contro. Ma è una falsificazione delle posizioni in gioco. Non ci dimentichiamo che in questo momento la Chiesa non si batte per il matrimonio religioso, ma si batte per la dignità del matrimonio tout-court, quindi anche per quella del matrimonio civile. La Chiesa interviene perché ha a cuore il bene umano. Il bene di tutti. Il dramma in Italia e non solo, è che in un’epoca di relativismo culturale certe dimensioni del bene umano ormai sembra che a difenderle sia solo la Chiesa. Ma qui il problema va oltre la politica e diventa un grande problema culturale.
Ma esistono esigenze reali nelle nuove forme di convivenza…
Sì, ma basterebbe riconoscere un “contratto di convivenza”, come contratto tipico da inserire nel codice civile per risolvere tutti quei pochi nuovi problemi di convivenza che un mondo globalizzato come il nostro effettivamente può porre. Il contratto di convivenza non dovrebbe essere un contratto sessuato, cioè finalizzato a tutelare una coppia vincolato da affetto: vi potrebbero accedere gruppi di studenti, coppie di fratelli e tante altre forme di convivenza con ricadute giuridico-economiche.
Ma esistono anche le coppie omosessuali…
Il problema della differenza sessuale non è un problema che spetta allo Stato gestire. Le convivenze omosessuali sono legittime, ma lo Stato, a mio avviso, deve gestire interessi sociali e non interessi ideologici e simbolici. I contratti di cui parlo possono essere firmati anche da due persone dello stesso sesso che convivono, ma questo particolare non è rilevante dal punto di vista giuridico.