PACOLLI: NON SCENDEREMO IN PIAZZA PER FESTEGGIARE

Dal Giornale del Popolo del 15 febbraio 2008

Il D-Day kosovaro è previsto per domenica 17, ma secondo l’imprenditore svizzero-kosovaro Behgjet Pacolli, oggi a capo della terza forza politica del Paese, non è escluso che l’indipendenza possa essere proclamata già oggi. Il Kosovo è vicino all’appuntamento con la storia, anche se a Belgrado (e a Mosca) dicono che faranno di tutto per guastare la festa ai kosovari.

Pacolli, cosa sta succedendo a Pristina?

Domani (oggi per chi legge, ndr) i vertici della politica kosovara si riuniranno alle 8 e decideranno la data per la proclamazione dell’indipendenza. Il giorno prescelto potrebbe essere già venerdì, ma di sicuro l’indipendenza sarà proclamata entro il fine settimana.

Sono previsti dei festeggiamenti?

Sì, certamente. Ma nulla di ufficiale. Si tratterà di qualcosa di “familiare”, per così dire. Abbiamo fatto un appello alla popolazione perché non scenda in piazza, ma rimanga a festeggiare in casa. Per i festeggiamenti ufficiali aspetteremo quando l’ONU riconoscerà ufficialmente il Kosovo.

Come pensa reagiranno i serbi che abitano in Kosovo?
Io penso che se loro decideranno di rimanere non avranno nulla da temere. Sono convinto che sarà meglio anche per loro: potranno godere dei vantaggi che derivano dall’esistenza del nuovo Stato. Anche loro hanno sofferto dello status quo. Ora potranno avere rappresentanti eletti, e tutti i diritti dei cittadini kosovari. Perché il Kosovo non è il Paese degli albanesi, è il Paese dei kosovari.

Quali saranno le conseguenze dirette di questa dichiarazione?
Io penso che non vi saranno conseguenze gravi. Belgrado dovrebbe capire che con l’indipendenza non perderà il Kosovo, ma lo riavrà, perché il Kosovo potrà riavvicinarsi alla Serbia.

Ma Belgrado ha già detto a chiare parole che ritiene illegale la decisione di Pristina…
Sì, la Serbia e la Russia hanno detto che si opporranno in tutti i modi, ma non so che valore avrà questa opposizione.

Ma Mosca ha il potere di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU…
Ma il caso del Kosovo non è di competenza del Consiglio di Sicurezza. Quel che conta è che ogni Stato potrà decidere se riconoscere o meno il Kosovo indipendente. Non c’è nessuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza che proibisce l’autodeterminazione di un popolo. L’ONU garantisce l’integrità e la sovranità di uno Stato, ma noi non stiamo minacciando l’integrità della Serbia: noi rivendichiamo il diritto del nostro popolo ad autodeterminarsi.

Qualcuno sostiene che il Kosovo rimarrà un protettorato dell’Unione europea…
Fino ad oggi è stato un protettorato, da domani saremo indipendenti. Certo, concorderemo l’indipendenza con la maggior parte degli Stati dell’UE e con gli Stati Uniti, ma poi saremo indipendenti. Io so con certezza che verremo riconosciuti subito da Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia.

La Serbia potrebbe reagire militarmente?

Non penso. In quel caso la decisione gli si rivolterebbe contro.

Magari un attacco militare no, ma potrebbero tagliarvi le forniture elettriche, ad esempio…

Sì, faranno di tutto per isolarci, ma è una decisione contro i loro interessi. Oggi l’80 per cento dei prodotti che si vendono in Kosovo è di provenienza serba. Se chiudono le frontiere si priveranno di un mercato di due milioni e mezzo di persone. Albania, Macedonia e Grecia sono già pronte a prendere il posto della Serbia.

Lei finora ha fatto molti affari con la Russia e le ex repubbliche sovietiche: ora i rapporti con Mosca saranno più difficili?

Sì, già ora percepisco una maggior freddezza che nel passato. Ma utilizzerò i miei rapporti per ricucire lo strappo e mi impegnerò per far nascere una commissione parlamentare per ricostruire i rapporti con la Serbia.

E SE LA CINA AVESSE UN SINDACATO LIBERO?

HAN DONGFANGINTERVISTA A HAN DONGFANG

Dal Giornale del Popolo del 29 gennaio 2008

In quel tragico maggio del 1989 – quello delle proteste studentesche in piazza Tienanmen – si trovò, quasi per caso, ad essere il portavoce del primo sindacato indipendente della storia della Cina. Allora Han Dongfang era giovane, aveva 25 anni. In mezzo a una piazza piena di studenti, lui si trovò a manifestare in nome dei lavoratori. Quando il 4 giugno l’esercito cominciò a sparare sulla folla i suoi compagni lo portarono via a forza perché volevano salvargli la vita. Fosse stato per lui sarebbe rimasto lì, ad affrontare le pallottole. «Sogni di eroismo erano nell’aria in quei giorni» ricorda. La vita gli fu salvata, ma non gli fu risparmiato il carcere e le torture. Riuscì a uscire di prigione solo a causa di una forte tubercolosi e, grazie a un’organizzazione per i diritti umani americana, riuscì a giungere negli Stati Uniti dove lo curarono asportandogli un polmone.
Oggi non può tornare in Cina, ma da Hong Kong ha fondato una rivista, il China Labour Bulletin, che parla dei diritti dei lavoratori cinesi, conduce un programma radiofonico seguito in tutta la Cina e fornisce consulenza giuridica a chi ha il coraggio di rivendicare i propri diritti. Già, perché la Cina sarà pure un regime comunista dove i diritti umani sono un miraggio, ma anche a Pechino vigono una costituzione e delle leggi. È proprio partendo dal rispetto delle leggi vigenti che Han Dongfang prova a far partire la lotta contro i soprusi sui lavoratori. Una questione culturale e di mentalità, dice lui. Una goccia nel mare, diciamo noi. Lo abbiamo incontrato i in occasione del convegno VeriDiritti del mese scorso ad Ascona.

Signor Han, lei viene definito il Lech Walesa cinese. Si riconosce in questa definizione?

No, non mi piace affatto. La Polonia della fine dell’inizio degli anni ’80 è molto diversa dalla Cina di oggi. Certamente Lech Walesa è uno dei miei eroi, ma quando ci si riferisce a lui lo si mette in relazione con la caduta del regime comunista. Il mio obiettivo primario non è quello di far cadere il regime cinese. Io cerco di far capire ai lavoratori cinesi che hanno gli strumenti per difendere i loro diritti.

Dopo le vicende di Tienanmen, come è continuata la sua attività di difesa dei diritti dei lavoratori?
Nel marzo del 1994 ho fondato a Hong Kong il China Labour Bulletin. Lo scopo era quello di pubblicare un documento settimanale che avrebbe parlato di ciò che succedeva in Cina, descrivendo la vita dei lavoratori, e avrebbe spiegato agli stessi laboratori l’idea dei sindacati indipendenti. Lo scopo era essenzialmente educativo. Siccome con il passare del tempo il materiale raccolto aumentava siamo dovuti passare a un’edizione mensile. Mandavamo un’edizione inglese alle organizzazioni sindacali straniere e quella cinese alle fabbriche in Cina. Spedivamo il bollettino agli uffici dei sindacati ufficiali interni alle aziende, nonostante sapessimo che sarebbe stato spesso, se non sempre, girato direttamente al locale posto di polizia. Ma questo in sé non era un problema visto che la polizia ha, più di tutti, il bisogno di imparare qualcosa. Dal 2000 siamo passati completamente su internet.

Lei ha anche un programma alla radio…

Sì, si chama Labour Express e va in onda su Radio Fee Asia dal marzo del 1997. Mi diedero uno spazio bisettimanale per commentare i problemi del mondo del lavoro in Cina. Ma dopo qualche mese ho detto ai responsabili della radio che non potevo continuare a parlare dei problemi dei lavoratori senza poter parlare direttamente con loro. Mi stavo accorgendo, infatti, di perdere un po’ il contatto con la realtà. Così ho suggerito di dare un numero di telefono in modo che i miei ascoltatori potessero chiamarmi gratuitamente. Così mettemmo a disposizione una segreteria telefonica sulla quale gli ascoltatori potevano raccontare le loro storie. L’idea fu subito un successo e non solo le mie trasmissioni divennero più interessanti, ma anche i miei articoli e le mie prese di posizioni divennero molto più ancorati alla realtà e ai fatti concreti. Poi abbiamo deciso di passare le telefonate in diretta e siamo arrivati a coprire in tempo reale dimostrazioni e scioperi: la gente mi chiamava dalle cabine telefoniche lungo le strade e io potevo intervistarli mente i fatti accadevano.

Da dove arrivano le chiamate?
Da un po’ tutta la Cina, anche da Tibet e dallo Xinjiang.

Ma cosa consiglia ai lavoratori che le chiedono aiuto?
Noi abbiamo sviluppato una forma di lotta che si basa sull’incoraggiamento dei lavoratori a seguire le vie legali. Prendiamo l’esempio dei salari arretrati non pagati dalle aziende di Stato: la legge cinese è molto chiara sulla responsabilità del Governo di pagare i salari dei lavoratori. Il Ministero del Lavoro non solo è obbligato a pagare i salari arretrati, ma deve pagare un risarcimento per gli arretrati non corrisposti. Nessun giudice in Cina può negare questi regolamenti, ma quasi nessuno si permette mai di ricorrere a loro. Il nostro servizio è quello di spiegare le procedure legali ai lavoratori e di trovare avvocati che vogliano prendersi carico dei loro casi. Qualche anno fa alcune decine di lavoratori di un’enorme fabbrica tessile di Suizhou, nella provincia di Hubei, sono stati arrestati dopo una dimostrazione e sono stati mandati in un centro di rieducazione senza alcun processo. Noi abbiamo mandato un avvocato da Pechino che è andato all’Ufficio di pubblica sicurezza locale dicendo che quella era una decisione amministrativa illegale. Solo allora hanno rilasciato i lavoratori. Dopo quel caso abbiamo sviluppato un “programma di intervento sui casi legali” che risulta molto efficace. Ma soprattutto sempre più avvocati ci chiedono di lavorare con noi e non hanno più paura di uscire allo scoperto.

Lei ha parlato di imprese di stato. Ma cosa succede per il settore privato?
Il settore privato è di due tipi: quello locale e quello straniero. È molto più facile lavorare con le imprese straniere che con quelle cinesi. Le aziende locali sono per la stragrande maggioranza ex monopoli di Stato privatizzati e comprati da ex funzionari del partito ancora molto protetti dall’attuale establishment. Con le compagnie straniere, incluse quelle di Taiwan, Hong Kong e Corea, accade che, certo, i manager paghino i funzionali locali per fare quello che vogliono. Ma noi possiamo far pressioni su questi funzionari indicando innanzi tutto la legge sul lavoro, ma anche facendo presente che stanno proteggendo investitori stranieri a discapito dei lavoratori cinesi. A volte questo argomento sortisce qualche effetto. Con le aziende straniere è più facile anche perché la maggior parte dei lavoratori vengono dalle campagne e non sono mai stati protetti da nessuno. Mentre nelle aziende locali i lavoratori sono gli stessi dei tempi del monopolio di Stato e, nonostante i loro salari siano stati drasticamente diminuiti, in loro è ancora viva la credenza che, in fondo, lo Stato si prenda cura di loro.

Si può dire che i sindacati ufficiali difendono più il management delle aziende piuttosto che i lavoratori?

Certo, è assolutamente vero e si può dire ovunque in Cina. In molti casi i funzionari dei sindacati ufficiali fanno loro stessi parte del management delle aziende.

Ma le aziende occidentali non potrebbero offrire condizioni migliori di lavoro e fare pressioni sul Governo per il rispetto dei diritti umani?
Io non la vedo da questo punto di vista. Gli investitori stranieri non sono organizzazioni di beneficenza e vengono in Cina per fare il maggior utile possibile. A me interessa far capire ai lavoratori cinesi che ci sono già le basi legali per organizzarsi per poter difendere i propri diritti. Quel che sto cercando di fare è di creare un vero e proprio movimento sindacale. È chiaro che il singolo lavoratore non può fare granché. Il problema è che la maggior parte dei lavoratori è terrorizzata e preferisce subire i soprusi che rischiare qualcosa.

Quindi l’Occidente non può far nulla?

Certo, i Governi possono fare pressioni su Pechino e i media possono raccontare quello che succede. Tutto questo è molto utile, ma non mi aspetto che i businessman occidentali si trasformino in dame della carità.

Il presidente cinese Hu Jintao continua a ribadire che l’obiettivo del Governo è quello di creare una “società armoniosa”. Cosa pensa di questo tipo di retorica?
Una “società armoniosa” è un luogo dove le persone si trattano in modo civile. Questo è quello che intendo io, per lo meno. Una “società armoniosa” non può essere un luogo dove tutti se ne stanno zitti o un luogo dove il potere politico fa in modo che nessuno si possa lamentare. Una “società armoniosa” non è necessariamente una società “tranquilla”, è una società vitale, in cui le persone possono discutere, contrattare. Una “società armoniosa” è una società, tra l’altro, in cui lavoratori e datori di lavoro possono mettersi davvero d’accordo. E non è quello che capita oggi in Cina.

C’E’ GROSSA CRISI/2

INTERVISTA A GIAMPAOLO PANSA

Dal Giornale del Popolo del 26 gennaio 2008

Oggi in Italia è più facile parlare di quel che è successo, di cosa è stato, degli errori fatti fino a ieri. Anche se gli interrogativi sono tutti da porre al futuro: ora che Prodi non c’è più da che parte andrà l’Italia? Ma oggi più che mai del futuro “non v’è certezza”. Non si sbilancia troppo neanche un vecchio lupo del giornalismo politico come Giampaolo Pansa, il quale però, se ci dovesse scommettere sopra, punterebbe suo malgrado sulle elezioni anticipate.

Pansa, Prodi è caduto. Ora cosa succederà?
Se lo sapessi con certezza pubblicherei un volantino con le previsioni e lo venderei a 10 euro la copia. Ma le opzioni non sono molte. Se il presidente Napolitano riesce a imporre la sua volontà, potrebbe nascere un Governo che io chiamerei “del Presidente”, nominato da lui, accompagnato dalla sua cura e il suo appoggio e presentato in Parlamento perché vari come minimo la legge elettorale per poi andare a votare. Napolitano ha in mente una cosa che secondo me è giusta: andare a votare con questa legge espone il Paese di nuovo al rischio di una maggioranza, certamente opposta a quella caduta ieri al Senato, ma che avrebbe ben pochi margini per governare cinque anni.

Qual è il punto debole della legge in vigore?
Ce ne sono tanti. Ma il principale è che al Senato c’è un premio di maggioranza assegnato alla coalizione vincente che viene dato sul piano regionale invece che nazionale. Questo ha prodotto l’aberrazione per la quale il centrosinistra nell’aprile del 2006 aveva avuto al Senato 200mila voti meno della Casa delle Libertà, ma ha ottenuto due seggi di vantaggio.

E se invece Napolitano non ce la fa a mettere in piedi un altro Governo?
L’altra tesi è quella sostenuta da quasi tutta la maggioranza del centrodestra, tranne Casini, che chiede di andare a votare subito. Qui le consultazioni con Napolitano saranno decisive. Lui ha il compito di accertare fino in fondo se nell’attuale Parlamento vi siano le condizioni per un altro Governo. Se Forza Italia dice di no, AN dice di no, la Lega dice di no, dice di no ancheRifondazione Comunista e il Partito dei Comunisti Italiani, nessun Governo è più possibile. E a quel punto non si può far altro che andare a votare.
Ecco, e se si torna alle urne?
Beh, per quello che sanno un po’ tutti: i sondaggi sostengono che il centrodestra è in grande vantaggio sul centrosinistra. L’unico punto interrogativo sta nel sapere che cosa può fare un Partito democratico guidato da Veltroni il quale, secondo me saggiamente, ha deciso di presentarsi da solo alle elezioni qualunque sia la legge elettorale. Poi bisogna vedere se non ricomincerà all’interno del PD la rissa che già si intravede tra chi vuole sfiduciare Veltroni perché non è d’accordo sulla volontà di presentarsi da solo. Sono persone che hanno sempre avuto in uggia Veltroni.

I nomi?
Bastino questi due: Arturo Parisi e Rosy Bindi. In queste sere li ho incontrati in trasmissioni tv e sembravano degli avversari nati del PD. È una cosa che lascia sconcertati e che ti fa pensare che nella sinistra italiana, anche in quella che dovrebbe essere più omogenea e che si raccoglie nel partito di Veltroni, c’è un virus della rissa e della divisione che è insopprimibile. Quindi potrebbe portare al limite alla sconfitta prima ancora che nelle urne a una sconfitta politica con la fine prematura dell’esperienza del Partito democratico.
Davvero Berlusconi è disposto a correre il rischio, andando al voto con questa legge elettorale, di vincere trovandosi nelle identiche condizioni di precarietà con le quali ha dovuto fare i conti Prodi?
Secondo me Berlusconi per quel poco che lo conosco, vuole assolutamente riprendere in mano la stecca, cioè vincere le elezioni. Lui conta di vincere con un margine talmente alto che la legge elettorale vigente gli permetterebbe, secondo i calcoli di qualcuno, di avere al Senato 15 o 16 seggi di vantaggio. Non sono molti, ma sono sempre più di due. Fosse per lui andrebbe al voto domani mattina.

Prodi è davvero al capolinea?
Io conosco molto bene Prodi. Prodi è una testa quadra e, essendo di Reggio Emilia, ha un carattere molto forte, sa essere anche cattivo. C’è qualche giornalista, che purtroppo non sono io, che ha inventato un’immagine terribile per descriverlo: «Prodi gronda bontà da tutti gli artigli». Io gli consiglio solo di non cercare di sopravvivere a se stesso. Però lui è adulto e vaccinato e deciderà lui. Certo che se ci fossero le elezioni e Prodi e i prodiani dovessero fare una lista di centrosinistra in contrapposizione al PD, a quel punto Berlusconi
vince 90 a zero. Sarebbe un disastro. Io spero che, visto che lui ci crede, il Padreterno e la Madonna lo aiutino ad essere saggio. Ma non si può mai dire. La politica italiana è piena di follie.

L’annunciata convergenza tra Veltroni e Berlusconi che destino avrà ora?
Io non so con quanta sincerità Berlusconi avesse avviato questo dialogo con Veltroni. Veltroni, accettando di aprire a un dialogo con l’opposizione, ha fatto quello che chiunque avrebbe dovuto fare. Si continua a dire fino alla sbronza di parole che una legge elettorale non può nascere se non c’è una maggioranza forte nei due rami del Parlamento. La prima maggioranza che si deve trovare è quella che nasce dall’intesa tra i due partiti maggiori. Purtroppo è un’intesa che ora non è più possibile. Bastava vedere con quale esultanza ieri è stata accolta dai militanti del centrodestra la caduta del Governo per capire da che parte si vuole andare: verso le elezioni.

IL KOSOVO SECONDO PACOLLI

INTERVISTA A BEHGJET PACOLLI

Dal Giornale del Popolo del 13 dicembre 2007

Ha ristrutturato il Cremlino, e sta costruendo il Kazakistan. Ottenendo appalti milionari. Ora si è rimboccato di nuovo le maniche e vuol ricostruire il suo Paese, il Kosovo. Ma questa volta gli appalti non c’entrano, c’entra invece quel 12 per cento che il suo partito, l’Alleanza per un Nuovo Kosovo, ha ottenuto alle elezioni dello scorso 18 novembre. Behgjet Pacolli, noto imprenditore svizzero-kosovaro, in pochi mesi ha messo in piedi la terza forza politica del Paese e ora ha i numeri per entrare nel Governo di Hashim Thaci.

Martedì Thaci è stato incaricato di formare il governo del Kosovo. Il suo partito entrerà nella coalizione di governo?
Noi abbiamo posto una condizione per entrare nella coalizione: il nostro programma di sviluppo economico del Kosovo deve essere applicato così com’è.

Sembra un modo per dire che non avete intenzione di partecipare alla coalizione…

No, la nostra offerta è sincera. Ma ad essere onesti non ci dispiace restare fuori da questo Governo. Thaci, infatti, non dà le garanzie per poter svolgere un lavoro serio. Da queste elezioni sono uscite le stesse persone che finora hanno guidato il Kosovo negli ultimi otto anni. Hanno avuto la chance di fare qualcosa per il Paese, ma nei fatti hanno realizzato poco o nulla. Non penso che Thaci sia in grado di fare miracoli.

Ora siete la terza forza politica del Paese, se entrate nel Governo potreste ottenere molto, in fondo…
Mi aspetterei, innanzitutto, di ottenere una delle tre principali cariche dello Stato: presidente, premier o presidente del Parlamento. Per realizzare il nostro programma, che è all’80 per cento di tipo economico, sarebbe sensato che ci venissero affidati i ministeri delle Finanze, dell’Economia e dell’Energia. Per queste materie noi abbiamo il miglior programma. Ma non penso che Thaci sia disposto a concederci quello che chiediamo.

Allora prevede una coalizione tra Thaci e gli eredi di Rugova?
Certo. A noi, in fin dei conti, fa comodo. Avremo il tempo di rafforzarci per presentarci ancora più competitivi alle prossime elezioni che, secondo me, saranno al più presto fra sei mesi e al più tardi tra un anno e mezzo.

Il governo non è ancora nato e lei ne prevede già la morte?

I kosovari son stufi, oggi a loro interessa il benessere, lo sviluppo economico. Guardi cos’è successo all’inizio della scorsa campagna elettorale: nei primi due giorni gli altri partiti hanno utilizzato la solita retorica che prometteva l’indipendenza, mentre noi non abbiamo puntato tutto sui temi economici. Quando gli altri partiti si sono accorti che quella strategia era perdente hanno incominciato anche loro a copiare la nostra linea.

Quindi a lei non interessa l’indipendenza?

Certo, quella è necessaria e verrà. Ma i problemi oggi sono l’energia elettrica, i posti di lavoro, la miseria diffusa.

Ma l’annuncio dell’imminente dichiarazione d’indipendenza era più un argomento elettorale che sostanziale?
No, l’indipendenza è un fatto. Io dico che non c’era bisogno di sventolarla a ogni piè sospinto. È come continuare a dire al proprio figlio «ti amo, ti amo, ti amo». Tuo figlio sa che gli vuoi bene, anche se non glielo ripeti ogni minuto. Così per l’indipendenza: ormai non c’è più alcun motivo per non proclamarla.

Eppure la Serbia non sembra pensarla allo stesso modo…

L’indipendenza sarà presto proclamata. Io prevedo che la Serbia accetterà questo fatto, perché solo in questo modo potrebbe avere il Kosovo al suo fianco. Se la Serbia accetterà l’indipendenza io sarò il primo a impegnarmi affinché i due Paesi ricomincino a vivere uno accanto all’altro in modo pacifico. Mi impegnerò perché persone, idee e capitali possano circolare liberamente. E questo conviene anche alla Serbia.

"PER FAVORE NON CHIAMATELI VEGETALI"

INTERVISTA A GIOVANNI BATTISTA GUIZZETTI

Dal Giornale del Popolo del 27 novembre 2007

Al Centro Don Orione di Bergamo lo chiamano il “piano terra”, semplicemente. Ci lavorano 14 infermieri, 14 ausiliari e un capo sala. Le qualifiche non sono importanti, conta quello che si fa. È il reparto per i pazienti in stato vegetativo diretto dal dottor Giovanni Battista Guizzetti. I suoi pazienti non si muovono, non parlano, non sembrano percepire il mondo esterno. Eppure respirano senza aiuto di macchine. Hanno gli occhi aperti. Sembra che qualcuno gli abbia spento la luce. Li nutrono con un sondino che entra nello stomaco, perché non sono più capaci di deglutire. Ricordate il celebre caso di Terry Schiavo? Ecco: stessa cosa. Ricordate Antonio Trotta, il giovane italiano da anni residente ad Ascona caduto in stato vegetativo di cui si è detto “conteso tra Italia e Svizzera”? Anche lui sarebbe potuto essere un paziente del “piano terra” del dottor Guizzetti. Una volta lo stato di questi pazienti veniva definito “stato vegetativo permanente”. Oggi la parola “permanente” è stata eliminata. Perché? Semplicemente perché al Don Orione di Bergamo dal 1996 ad oggi, su 80 pazienti se ne sono svegliati 12. Hanno riconosciuto i parenti, hanno ripreso a parlare, qualche volta hanno anche ricordato di quel che gli accadeva durante la malattia. Insomma hanno dimostrato che non erano proprio vegetali- vegetali come sembrava. Anzi, meglio non chiamarli così in presenza del dottor Giovanni Battista, perché potrebbe anche arrabbiarsi…

Dottor Guizzetti, cos’è lo stato vegetativo?
Lo stato vegetativo può essere causato da un evento acuto oppure può essere la fase finale di una malattia degenerativa come la demenza, ad esempio. Io comunque mi occupo del primo tipo di pazienti. Nel mio reparto sono ricoverate quelle persone che hanno avuto un evento acuto e quindi passano da una condizione di benessere completo a una condizione di devastante disabilità. Una situazione che solitamente segue a uno stato di coma, causato o da un trauma cranico, da un infarto , da un’insufficienza respiratoria oppure da un tumore o da un’emorragia cerebrale. Dal coma si esce dopo 4-6 settimane al massimo: o morendo, o con deficit più o meno grave o, appunto, si esce in stato vegetativo.

Che differenza c’è tra coma e stato vegetativo?

Il passaggio da coma allo stato vegetativo è segnato dall’apertura degli occhi. Si dice che il paziente riacquista la vigilanza: di giorno per lo più è sveglio e di notte dorme. Però non ha un contenuto di coscienza sicuramente dimostrabile. Non ha consapevolezza di sé e relazione con l’ambiente.

Di che cure ha bisogno un paziente di questo tipo?
La vita di questi pazienti non dipende da nessun supporto tecnologico perché le funzionalità cardiaca, respiratoria e digestiva funzionano benissimo. Il problema è che sono totalmente dipendenti nelle funzionalità della vita quotidiana: il mangiare, il lavarsi, il vestirsi. Hanno bisogno che ci sia qualcuno che lo faccia per loro.

Questo stato è reversibile?
Quanto più passa il tempo, tanto minori sono le possibilità di un recupero della coscienza. Però queste possibilità non si azzerano mai. Non si può sapere con totale certezza se una condizione di stato vegetativo rimarrà permanente per tutta la vita. Qualche mese fa c’è stato il caso di un ferroviere polacco che si trovava a casa sua in stato vegetativo e che si è svegliato dopo 19 anni. È un caso documentato dalle diverse riviste mediche. Il recupero è avvenuto senza il ricorso a nessun tipo di cura. Lui era a casa, sua moglie lo accudiva, i suoi figli lo curavano. E lui, dopo 19 anni, si è svegliato.

A lei è mai capitato un caso così clamoroso?
Tra i soggetti ricoverati nel mio reparto c’è stato un risveglio di un ragazzo dopo 17 mesi. È stato qualcosa di molto drammatico, perché è stato come se si fosse accesa una lampadina. Un “on-off” incredibile. Si è proprio svegliato di punto in bianco, si è messo a ridere e ha cominciato a parlare con sua moglie che in quel momento gli si trovava accanto. Una scena impressionante…

Qual è la probabilità di risveglio?

Non ci sono dei dati chiari. È una cosa su cui i medici hanno studiato poco. Ora con le tecniche di risonanza magnetica si stanno ottenendo dati interessanti. Però non ci sono dei dati sui risvegli, ma ci sono quelli sulla sopravvivenza. Tenga conto che i primi casi di stato vegetativo risalgono a una cinquantina d’anni fa e cioè da quando esistono le unità coronariche, le terapie intensive e i respiratori.

Che cosa percepiscono queste persone? Nel celebre caso di Terry Schiavo se ne parlò molto…
Il problema è che la coscienza, intesa come contenuto esperienziale ed emozionale che è in ognuno di noi, non è esplorabile. Io non posso dire nulla sullo stato di coscienza della persona che ho di fronte. Io posso dire che questa persona non esprime una relazione con me, verbalmente e gestualmente. Però c’è tutto l’aspetto emotivo che io non posso esplorare. Per Terry Schiavo, ad esempio, si diceva che non percepiva. Peccato che gli stessi medici che hanno deciso di farla morire, durante la sua agonia, le hanno somministrato della morfina. Si vede che anche loro hanno riconosciuto che in quei momenti provava dolore…

E chi si sveglia ricorda qualcosa?
Il ferroviere che si è svegliato in Polonia in un’intervista ha dichiarato che durante la malattia era angosciato per il fatto che non riusciva a comunicare. Riusciva a vedere sua moglie e i suoi cari che lo curavano, ma non riusciva ad esprimere nulla. Il ragazzo che si è svegliato da noi, invece, ricorda con angoscia il momento del bagno: aveva paura del momento in cui veniva messo nella vasca. C’era un certo tipo di relazione. Certo, non si tratta di consapevolezza piena. Ma un qualcosa di primordiale.

Ultimamente sia in Italia sia in Svizzera si è parlato del caso di Antonio Trotta per il quale una commissione etica ticinese aveva sconsigliato, nel caso di peggioramento, di non intervenire con cure intensive perché la qualità della vita del paziente non sarebbe più stata accettabile…
Io se dovessi pensare di sottoporre uno dei miei pazienti a una dialisi avrei dei problemi, sinceramente. Non avrei problemi a curargli una polmonite, o cercare di migliorare la nutrizione o l’idratazione cutanea eccetera, ma intervenire con delle tecnologie mediche, penso che non lo farei.

Molti dicono che una vita da “vegetale” non vale la pena di essere vissuta…

Il termine “vegetale” dà un giudizio dispregiativo che io non posso condividere in alcun modo. Nel nostro reparto negli ultimi undici anni sono passate 80 persone e non ho mai avuto nessuna richiesta di sospensione di cura o di eutanasia da parte dei parenti. Lo stato vegetativo non lo considero più una malattia, lo considero una drammatica situazione esistenziale con la quale si può ancora cercare di costruire una relazione. Io ho visto mariti, mogli, figli, padri e madri che hanno saputo ricostruire una relazione con queste persone. L’espressione “vita da vegetale”, non rende per niente giustizia a ciò a cui assisto tutti i giorni.

Il professor Umberto Veronesi ha definito queste persone dei “morti viventi”…
È un disprezzo per l’umano che io non posso tollerare.

Ma la “qualità della vita”?

Siamo solitamente abituati a giudicare la vita in termini utilitaristici: in base alle nostre capacità di produzione, di spesa e alla fine di godimento. Dimenticando completamente altre dimensioni che costituiscono la vita umana che sono la dimensione relazione, la dimensione spirituale e, perché no, la dimensione religiosa. Anche queste sono caratteristiche dell’umano. Bisogna far molta attenzione a sdoganare il concetto di “qualità della vita” perché poi potranno farne le spese i malati di Alhzeimer, i ritardati mentali, i disabili. Io questo non posso accettarlo.

Sta dicendo che il concetto di “qualità della vita accettabile” potrebbe aprire le porte all’eutanasia attiva?
Oggi la medicina guarisce poco e cronicizza molto. Persone con moltissime malattie che fino a poco tempo fa portavano velocemente alla morte, oggi sopravvivono per moltissimi anni. Questo indubbiamente porterà a un’esplosione della spesa sanitaria. Creare dei criteri di accesso alle cure basandosi sul parametro di qualità della vita potrebbe essere anche un mezzo per ottenere il contenimento della spesa sanitaria…

Per i familiari si tratta di un calvario. Resistono tutti?

Non si può parlare di famiglie, ma si devono considerare le singole persone. Ognuno reagisce in modo diverso. Ma io ho visto che in questi anni la figura che non molla mai è la mamma. Ci sono mogli che lasciano i mariti, mariti che lasciano le mogli. Ma quando c’è una mamma di mezzo, stia sicuro che questa non molla mai. Nel nostro centro abbiamo persone di Milano e ci sono delle mamme, ormai anziane, che vengono da Milano a Bergamo tre o quattro volte alla settimana per stare tutto il giorno con i loro figli. Li portano in giro, li accarezzano, gli parlano. E hanno veramente ricostruito una relazione con i loro figli. Certo se uno giudica queste cose come ininfluenti o insignificanti per l’umano, va bene, lo faccia pure. Ma secondo me sono segni forti della nostra dignità e della nostra statura di uomini, di essere umani.

I suoi pazienti non sono in grado neanche di riconoscerla. Come medico, non dev’essere un’esperienza molto gratificante…

Quando sono uscito dall’università come tutti pensavo che la guarigione fosse il criterio per stabilire la bontà dell’agire di un medico. Poi con il passare degli anni mi sono accorto che questo criterio non regge. Perché nella relazione medico-paziente la guarigione non può essere l’unico obiettivo che definisce il bene di una vita. Stando di fronte a queste situazioni di non guaribilità, ma di possibilità di “prendersi in cura”, ho rivisto il mio modo di lavorare.

Ma esistono delle soddisfazioni nel suo lavoro?
Noi non ci rendiamo conto del significato dei gesti più semplici che compiamo durante la giornata: alzarci da una sedia o bere un bicchiere d’acqua. Per noi sono ormai automatici. Ma stando con queste persone uno capisce che anche mandar giù un bicchiere d’acqua o mangiare un cucchiaino di gelato, hanno un valore relazionale e esistenziale formidabile. Vedere una persona in questa condizione che deglutisce o sorride mentre succhia un pezzo d’arancio, se permette, costituisce per me una grande soddisfazione

Ma se si dovesse trovare nella situazione dei malati che cura, cosa chiederebbe ai medici e alla sua famiglia?
Qualcuno che mi accompagni. Chiedo solo questo.

Qualcuno, invece, chiede di esser lasciato morire…

Oggi si fa tanto rumore per i singoli casi come Giovanni Nuvoli o Piergiorgio Welby, ma non si dice una parola sui migliaia di casi di malati in situazioni analoghe che chiedono di essere curati. Perché se si risponde adeguatamente alla domanda di cura, io penso che la domanda di eutanasia si riduce a zero. È troppo facile fare un sondaggio tra la gente che fa shopping chiedendo cosa ne pensa dell’eutanasia. È chiaro che poi salta fuori che il 70 per cento degli italiani è a favore dell’eutanasia. Il sondaggio va fatto tra i malati che sono assistiti: cosa dicono loro sull’eutanasia? In un recente convegno l’eutanasia è stata definita “la tentazione dei sani”. Una definizione strepitosa, perché veramente l’eutanasia è la tentazione solo di chi, da sano, fa i suoi ragionamenti. I malati chiedono di essere curati. Punto.

IL VESCOVO DI RIAD SULL’INCONTRO TRA IL RE E IL PAPA


INTERVISTA A MONS. PAUL HINDER

dal Giornale del Popolo del 7 novembre 2007

Una «giusta soluzione» al conflitto tra israeliani e palestinesi, una «menzione», ma solo da parte vaticana, della «presenza positiva e operosa dei cristiani» in Arabia Saudita ed un inatteso riferimento alla collaborazione «tra cristiani, musulmani ed ebrei» per la promozione della pace, della giustizia e dei valori spirituali. È la sintesi che il Vaticano dà del colloquio di 30 minuti svoltosi ieri tra Benedetto XVI e re Abdallah, primo incontro della storia tra un sovrano saudita ed un papa.
Il comunicato ufficiale del Vaticano afferma che «si sono ribaditi l’impegno in favore del dialogo interculturale ed interreligioso, finalizzato alla pacifica e fruttuosa convivenza tra uomini e popoli, e il valore della collaborazione tra cristiani, musulmani ed ebrei per la promozione della pace, della giustizia e dei valori spirituali e morali, specialmente a sostegno della famiglia». A parte l’inatteso riferimento agli ebrei, è quanto ci si aspettava. C’era un altro punto sul quale ci si aspettava l’intervento della Santa Sede, quello dei cristiani in Arabia Saudita. In proposito, il comunicato dice che «nell’augurio di prosperità a tutti gli abitanti del Paese da parte delle Autorità vaticane, si è fatto menzione della presenza positiva e operosa dei cristiani». Da qualche parte si sperava in qualcosa di più, ma va tenuto presente che è la prima volta che una dichiarazione relativa ad un incontro con un esponente saudita – e questa volta era il re – parla dei cristiani che vivono nel Paese, ufficialmente musulmano al 100%. In realtà, a causa dell’immigrazione, ci sono tra un milione e mezzo e due milioni e mezzo di cristiani. A tutti è vietato avere con sé libri e immagini sacri, crocifissi, rosari eccetera. In tutto il Paese, peraltro, non esistono chiese, né sacerdoti – a parte quelli eventualmente presenti in ambasciate – né sono permesse riunioni di preghiera nelle case private.
Per avere un commento sull’incontro di ieri abbiamo raggiunto ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, mons. Paul Hinder, cappuccino svizzero tedesco, dal 2005 vicario apostolico della Penisola araba e quindi vescovo dei cristiani che vivono in Arabia Saudita. «Il conivolgimento della Santa Sede nelle problematiche del Vicino e del Medio Oriente – dice mons. Hinder al GdP – è una cosa importante. Sia Roma che Riad sono interessate a una pacificazione della regione». «È chiaro – prosegue – che tutta la problematica del dialogo e dell’incontro delle due religioni è qualcosa di significativo e l’incontro di ieri costituisce un passo di avvicinamento che potrebbe portare dei frutti». Quali? «Come responsabile dei cattolici presenti in Arabia Saudita spero che si arrivi ad ottenere un po’ più di libertà per i nostri cristiani per quel che riguarda la pratica religiosa. Spero che un giorno si possa ritrovarsi per pregare senza correre rischi. Non mi aspetto certamente di poter subito costruire delle chiese, questo sarebbe chiedere troppo per ora. Ma almeno avere i nostri luoghi di preghiera e non vivere più nella paura». C’è qualche speranza che le cose cambino? «So che il re ha intenzione di andare in questa direzione, ma deve anche stare attento a causa della situazione molto tesa all’interno del Paese. Nonostante sia re, non è poi così libero neanche lui di far ciò che gli pare». Perché il comunicato del Vaticano non ha esplicitato le preoccupazione per i diritti umani e la libertà di religione? «La Santa Sede avrà avuto le sue ragioni per non ufficializzare la cosa, ma io suppongo che richieste di quel genere siano state fatte almeno nel colloquio con il Segretario di Stato mons. Bertone e il “ministro degli esteri” del Papa mons. Mamberti. Non riesco a immaginare che si sia taciuto su questi argomenti». Si sta assistendo a qualche miglioramento della situazione dei cristiani in Arabia Saudita? «Io posso solamente dire che non vi sono stati gravi incidenti da almeno un paio d’anni, almeno per quanto riguarda i fedeli cattolici. Parlerei di una situazione “passabile”, anche se è molto molto lontana dal quella ideale: ottenere cioè una vera libertà religiosa».

CRISTIANI IRACHENI IN LIBANO: UNO "TSUNAMI" UMANITARIO


Dal Giornale del Popolo del 2 novembre 2007

«È uno “tsunami” umanitario. Non so che altra immagine utilizzare. La situazione dei cristiani in Iraq è tragica, la loro stessa presenza nel Paese è ormai a rischio. Per questo fuggono e decine di migliaia di profughi giungono nei Paesi confinanti. Ma in pochi casi ottengono lo statuto di rifugiati. La loro diventa un’esistenza d’inferno, tutti i giorni confrontati con la paura di essere arrestati e rispediti nel loro Paese, dove è in atto una vera e propria persecuzione nei loro confronti». Così mons. Michel Kassarji, vescovo caldeo di Beirut, racconta il dramma dei cristiani iracheni che negli ultimi due anni, ormai, hanno cambiato la sua vita quotidiana. Ogni mattina, infatti, davanti alla porta del vescovado di Hazmieh, nei pressi di Baabda, la collina su cui sorge il palazzo del presidente libanese, si presentano una, due, tre famiglie di profughi fuggiti dall’Iraq che a lui chiedono aiuto. Sono clandestini e in Libano non potrebbero neanche starci. Il Libano ospita campi profughi palestinesi eredità del conflitto del 1948, ma non ha mai sottoscritto la Convenzione internazionale sui rifugiati del 1951, perciò non accetta profughi stranieri sul suo territorio se non nel caso di quelli a cui le Nazioni Unite rilascia un permesso temporaneo in vista del loro reisediamento in un Paese terzo.
«Oggi i cristiani iracheni – continua il vescovo caldeo – sono l’obiettivo diretto e programmato di una persecuzione che può essere paragonata a quella dei cristiani dei primi secoli. I fedeli vengono presi di mira dal fuoco delle squadracce sunnite e sciite, alcuni sacerdoti sono stati prima rapiti e poi uccisi, molte chiese sono state distrutte dalle autobomba». «Oggi a Baghdad – continua – un cristiano che passeggia per la strada con una croce al collo viene aggredito; in alcuni quartieri e in certe città vengono obbligati, pena la morte o la fuga, a pagare la “jizah”, l’antica tassa coranica imposta come tributo di soggezione a cristiani ed ebrei». Ma anche la fuga, la maggior parte delle volte, non sembra rivelarsi la soluzione. Le peripezie dei caldei iracheni in Libano, ad esempio, sono paradossali. Si spingono nel Paese perché sanno che lì vive una forte minoranza cristiana e che il capo dello Stato è cristiano. Ma presto scoprono una triste realtà. Attraversare la frontiera clandestinamente gli costa 200-300 dollari americani per persona, poi una volta entrati rischiano continuamente l’arresto per ingresso clandestino nel Paese. «Quando vengono presi – continua il vescovo – trascorrono dai tre ai cinque mesi in prigione in attesa del processo poi, dopo la sentenza, vengono espulsi. Molte volte ricevono telefonate dal Libano e dall’Iraq, anche nel cuore della notte, di parenti di persone arrestate che mi chiedono di intervenire. Io vado sempre alla prigione che spesso sono lontane dalla capitale e vicino al confine. Ho parlato diverse volte con il presidente, con il ministro dell’Interno, con responsabili dei servizi segreti, ma con scarsi risultati».
«La mia comunità caldea – dice mons. Kassarji – fino a un paio di anni fa era formata da circa 5000 fedeli. Oggi ci dobbiamo fare carico di 8000 fratelli iracheni. È quasi insostenibile, anche se noi facciamo tutto quello che possiamo fare». Quello messo in piedi dalla comunità caldea libanese è uno sforzo immenso: cinquecento pacchi alimentari al mese, 400 borse di studio per i figli dei profughi iscritti alle scuole cristiane libanesi, la scarcerazione di decine di arrestati, l’ottenimento del riconoscimento dello statuto di rifugiato per decine di profughi, la gestione di un doposcuola e di un corso di recupero serale per i ragazzi che di giorno lavorano. «È capitato – racconta ancora il vescovo – che uno di questi profughi è stato ricoverato in ospedale per una grave malattia. Dopo alcune settimana è morto. Sono andato all’ospedale per capire cosa fare per il funerale, ma mi è stato detto che il ricovero era costato diverse migliaia di dollari e fino a che il conto non fosse stato saldato da qualcuno, non mi avrebbero dato il corpo per seppellirlo. Cosa dovevo fare? Ho pagato e ho fatto il funerale».
Ma la sfida maggiore per mons. Kassarji è quella di tentare, insieme all’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, di ottenere dallo stato libanese una politica più umana che permetta di dare a questi rifugiati un permesso di soggiorno temporaneo fino alla loro partenza verso altri Paesi. «Ma la nostra vera intenzione – conclude – è quella di provare, con le istituzioni internazionali e le ONG, di convincere il popolo iracheno a restare in Libano. Sono convinto che servirebbe a consolidare la presenza cristiana in Libano. Questa infatti è la condizione indispensabile perché il Libano continui ad essere un modello di convivenza tra cristiani e musulmani». Ma per realizzare quello che può sembrare un sogno, occorre che la Chiesa caldea libanese venga sostenuta, perché con proprie forze, non potrebbe mai farcela. Per questo Mons. Kassarji sta girando alcuni Paesi europei per chiedere aiuto e lancia un disperato appello: «Aiutate i cristiani dello “tsunami” iracheno».

"O L’EUROPA CAMBIA L’ISLAM O L’ISLAM CAMBIERÀ L’EUROPA"

INTERVISTA A BASSAM TIBI

dal Giornale del Popolo del 20 settembre 2007

«La lingua da sola non è un sufficiente elemento di comunione… occorre pure un consenso valoriale… Infatti, in un contesto culturale pluralistico esseri umani appartenenti a culture (o religioni) differenti convivono mantenendo le rispettive identità culturali fintantoché accettano tutte le norme vincolanti per tutti». Non scherza con le parole il professor Bassan Tibi, intellettuale tedesco di origine siriana, musulmano, liberale, professore a Gottinga, Cornell, Harvard e Berkley. È diventato noto in Germania soprattutto per il libro “Preventing the Clash of Civilizations”, scritto a quattro mani con l’ex presidente della repubblica tedesco Roman Herzog, in cui criticava la nota teoria di Samuel Huntington sullo “scontro di civiltà”. Poi ha scritto “Euro-Islam – L’integrazione mancata”, in cui sosteneva, in sintesi, che «o l’Europa cambierà l’islam o l’islam cambierà l’Europa». Lo abbiamo incontrato in occasione del suo intervento al convegno “Politica senza religione” organizzato dalla Facoltà di Teologia di Lugano.

Professor Tibi, lei si considera un musulmano riformista, cosa significa?
Riformare l’islam vuol dire ritenere che sia possibile “pensare in modo critico” e “ripensare” l’islam. Nell’islam ci sono molte dottrine ereditate dal passato che costituiscono un problema per i musulmani di oggi. Penso ad esempio alle punizioni corporali, come le frustate o la lapidazione che sono delle violazioni dei diritti umani. Dunque la questione è: come i musulmani possono continuare ad essere tali e nello stesso tempo dire addio a queste pratiche? Riformare significa pensare e ripensare l’islam in modo cambiare o adattare alcuni concetti dell’islam. Pensiamo all’eguaglianza tra uomo e donna. Per l’Islam non c’è questa eguaglianza, mentre per l’islam riformato uomo e donna sono uguali ed è possibile restare musulmani affermando questa uguaglianza.

I diritti umani dunque hanno la precedenza sulla credenza religiosa?

No. Cosa intendiamo per credenze religiose? Io credo in Dio e questo non può essere cambiato. Ma esistono pratiche religiose e valori mutuati dalla religione che sono il frutto dell’interpretazione. Molti musulmani e cristiani interpretano il Corano o la Bibbia e dicono «questa è la parola di Dio». Ma una interpretazione umana non è la parola di Dio, è qualcosa di umano. E nulla vieta di cambiare ciò che è frutto di un pensiero umano. L’islam riformista si impegna a reinterpretare il Corano, ma non ha nessuna intenzione di cambiarlo. L’altro tentativo è quello di storicizzare le affermazioni del Corano. Nel VII secolo era pensabile punire qualcuno con la lapidazione o con il taglio della mano. Ma io dico che ora i tempi sono cambiati e queste prescrizioni del Corano non sono più applicabili. Io non cambio la fede, ma la reinterpreto e adatto le sue prescrizioni.

Quindi lei è a favore della lettura del Corano attraverso il metodo storico-critico…
Esattamente. I cristiani possono leggere la Bibbia mettendo in relazione i suoi contenuti con il periodo storico nel quale essa è stata scritta. Voi cristiani fate questo e non smettete di essere cristiani. Oggi questa operazione non è permessa nell’islam. Io ed altri stiamo cercando di introdurre nell’islam questo tipo di lettura storico-critica per introdurre riforme religiose.

Molti in Europa considerano Tariq Ramadan come un musulmano moderato. Le vostre posizioni sono paragonabili?
No. Tariq Ramadan non è in nessun un liberale, lui è un musulmano ortodosso e non è riformista. La differenza tra me e lui è che io dico quello che penso onestamente. Ramadan vuole che l’Europa diventi islamica, mentre io voglio che l’islam diventi europeo.

Le sue posizioni le hanno procurato qualche difficoltà all’interno del mondo musulmano?
Ci sono musulmani che accettano le mie posizioni, ad esempio in Indonesia. Ho potuto tenere un corso, sostenendo tutte le mie posizioni, all’Islamic State University di Giakarta. A questo corso hanno partecipato anche ragazze che indossavano il velo, ma non c’è stato nessun problema. Quattro dei miei libri sono stati tradotti in lingua indonesiana. I problemi esistono con i musulmani ortodossi e fondamentalisti che non accettano le mie idee e dicono che Bassam Tibi non è musulmano. Per loro, infatti, chi accetta una qualsiasi riforma non può essere considerato un musulmano.

Che tipo di problemi?
Alcune volte anche fisici. Sono stato minacciato di morte.

La crescente immigrazione musulmana in Europa sta creando molti problemi di integrazione. Quale strada propone per l’integrazione dei musulmani in Europa?
Tre anni fa ho pubblicato in Italia un libro intitolato “Euro-islam – integrazione mancata”. In quel libro sostenevo che sono due i principali ostacoli all’integrazione: una da parte europea e l’altra da parte musulmana. Il problema da parte europea è che si dice: «Se ti chiami Mohammed, non puoi essere italiano». Non importa se Mohammed è nato in Italia e parla italiano senza accento. Gli europei non sono molto “inclusivi”. È molto più facile essere americano negli Stati Uniti che essere italiano o tedesco in Italia o in Germania. In Germania è ancora più difficile. Io sono cittadino tedesco, sono professore universitario, mi è stata conferita la più alta onorificenza dello Stato tedesco, ho pubblicato 26 libri in tedesco e ho scritto per quotidiani e settimanali tedeschi, eppure non sono percepito come tedesco. Al contrario io non sono statunitense, ma sono stato professore ad Harward, ora lo sono a Cornell, ho pubblicato sette libri in inglese, eppure sono considerato un membro della società americana…

E dal punto di vista islamico?
Gli islamisti invece dicono: «Se sei musulmano sei membro della Umma e non potrai mai diventare europeo, perché quella europea è una società cristiana. Quindi se diventi europeo abbandoni la tua fede e diventi cristiano». Quel che occorre è un cambio di mentalità da entrambe le parti, perché il progressivo aumento della popolazione musulmana potrebbe creare davvero seri problemi all’Europa.

Quali problemi, secondo lei?
Pensiamo a quanto accaduto nelle banlieue francesi nel 2005. Ciò che accadde allora fu qualcosa di allarmante perché dimostrava un grande vuoto d’integrazione. Quei ragazzi che misero a ferro e fuoco il Paese erano nati in Francia, parlavano francese, erano cittadini francesi, ma non facevano parte della società. E si sono ribellati. Il numero dei musulmani sta aumentando e se il processo di integrazione non funzionerà in una cinquantina d’anni l’Europa diventerà come il Kosovo. All’inizio del XX secolo il musulmani in Kosovo erano il 10 per cento contro il 90 per cento di serbi. Dopo la seconda guerra mondiale i musulmani erano già la metà. Oggi vediamo come i serbi siano una minoranza messa alla porta. I modelli sono due: quello del Kosovo o quello di Cordoba, in Spagna, dove cristiani, musulmani ed ebrei vivono in pace. Io preferisco la seconda. Ma la condizione è che l’integrazione sia reale.

Come mai la presenza dei musulmani in Europa appare così marcatamente di stampo fondamentalista?
Nell’Unione europea ci sono 20 milioni di musulmani immigrati, alcuni di loro appartengono alla terza generazione ma non sono integrati. Tra questi solo il 3-5 per cento sono fondamentalisti. Sono una minoranza. Ma questa minoranza controlla le moschee, le istituzioni islamiche ed è veramente potente. La questione è che in Europa vi sono diversi approcci a questa realtà. Lo Stato francese, ad esempio, appoggia gli imam liberali: penso che l’imam di Parigi, Dalil Boubakeur, sia il miglior imam in Europa. Queste persone sono francesi e allo stesso tempo musulmane. In Germania, invece, la maggioranza degli imam sono fondamentalisti. Per questo è importante per la società civile che il Governo tedesco appoggi gli imam liberali. Penso che in Europa debbano esserci imam europei, che parlino le lingue nazionali, mentre ora la maggior parte di loro viene dall’Arabia Saudita, o dall’Egitto e predicano l’islam ortodosso o quello fondamentalista.

Un anno fa Benedetto XVI ha pronunciato il discorso di Ratisbona sottolineando l’importanza dell’uso nella ragione nel dialogo tra le religioni. Come giudica quel discorso?
Per me il Papa non ha detto nulla di sbagliato. Lui ha citato, poco diplomaticamente, una fonte che diceva che l’islam è qualcosa di cattivo. Ma questo non era il contenuto del suo messaggio: furono i giornali, e anche la BBC, a riportare la notizia in modo sbagliato attribuendo al Papa quel giudizio. Benedetto XVI disse che nel dialogo tra cristianesimo e islam occorre basarsi sulla ragione e rifiutare qualunque tipo di violenza fondata su motivi religiosi. Io questo giudizio lo condivido. A mio parere però in quell’occasione il Papa non ebbe un consulente che certamente gli avrebbe consigliato di tagliare quella citazione in modo da non essere frainteso.

DOVE I CRISTIANI SONO CITTADINI DI SERIE B

INTERVISTA AD ELHAM MANEA, RICERCATRICE ALL’UNIVERSITÀ DI ZURIGO

dal Giornale del Popolo del 5 luglio 2007

Elham Manea è yemenita e lavora come ricercatrice all’università di Zurigo e come giornalista per Swissinfo. Da alcuni anni prende posizione su alcuni siti arabi contro la deriva fondamentalista dell’islam e a favore dei diritti umani nei Paesi a maggioranza musulmana.

Elham Manea, cosa pensa della situazione dei cristiani in Medio Oriente?
Quando si considera questo argomento lo si può accostare da due punti di vista. Il primo è quello di considerare i cristiani, o chiunque creda in un’altra religione diversa dall’islam, nei Paesi della Penisola araba, in particolare in Arabia Saudita. Parlo della possibilità di credere ed esprimere il proprio credo in simboli e di praticare la propria religione in una chiesa. Questo in Arabia Saudita è proibito. Questo è una chiara e diretta violazione dei diritti umani. Il secondo punto di vista è quello che guarda ad altri tipi di Paesi come l’Iraq, l’Egitto, Siria, Giordania e Libano. Questi Paesi hanno una storia di convivenza tra diverse comunità religiose, in particolare negli anni tra le due guerre mondiali. In quel periodo esisteva una situazione di relativa pace, prosperità e tolleranza. Dico sempre “relativa” perché le comunità religiose diverse da quella musulmana non erano considerate “uguali” e non avevano lo stesso statuto di cittadinanza. Nonostante ciò se andiamo a vedere i documenti e le testimonianze dirette quel periodo viene descritto come “meraviglioso”.

Oggi invece?
A partire dagli anni Settanta è in atto un processo di reislamizzazione della società. Sfortunatamente è una reislamizzazione nella forma del wahabismo. Questo tipo di interpretazione dell’islam non è solo di tipo politico, non si limita cioè ad avere come scopo la conquista del potere: esso ha delle conseguenze sulla società, perché non detta solo il modo di concepire la religione islamica ma anche il modo di impostare le relazioni con i cristiani, gli ebrei, i non credenti e le diverse confessioni dell’islam (una wahabita, ad esempio, considera sufi e shiiti come eretici). Da allora è diventato sempre più difficile per i cristiani vivere nelle società del Medio Oriente ed è davvero triste vederli emigrare dai loro Paesi.

Cosa pensa della reintroduzione, in alcune regioni dell’Iraq, della “jizya” – la tassa per i cristiani –, oppure dell’uccisione di sacerdoti e delle pressioni per far convertire i cristiani all’islam?
È orribile. Il problema è che in Iraq tutti sono sotto tiro. La dittatura di Saddam aveva costretto le varie comunità a chiudersi in se stesse. Il modo affrettato con cui l’Amministrazione Bush ha tolto il coperchio di questa pentola a pressione ha fatto sì che gli scoppiasse in faccia. Ora la situazione è del “tutti contro tutti”. Ma i cristiani, per forza di cose, sono i più esposti. La situazione è triste perché c’è stato un tempo in cui l’Iraq era un Paese in un cui esisteva un convivenza reale tra le varie comunità. Oggi questo non è più possibile.

Molti ritengono che la fuga dei cristiani dal Medio Oriente costituisca un impoverimento della società di questi Paesi. È d’accordo?

Sì, sono d’accordo al cento per cento. I cristiani sono sempre stati i meglio istruiti e sono sempre stati una voce di moderazione. Hanno sempre svolto un ruolo molto importante in questi Paesi a livello culturale e politico. La perdita di questa presenza si rifletterà in modo negativo nella società. Anche in Paesi secolarizzati come la Siria stiamo assistendo a un lento processo di emigrazione dei cristiani. Questo è davvero un brutto segnale.

Molti musulmani in Europa si lamentano della crescente islamofobia in Occidente. Pochi di loro, però, sembrano preoccuparsi delle minoranze nei loro Paesi d’origine. È solo un’impressione?
No, è vero. Mi fa molto arrabbiare il “doppio standard” usato per giudicare le situazioni in Occidente e quella nel mondo arabo. Le comunità musulmane si lamentano spesso per la crescente islamofobia, e non nego che da parte di alcuni partiti politici occidentali esista una tendenza di questo genere. Eppure nessun musulmano dice una sola parola sul fatto che nei Paesi a maggioranza islamica i cristiani non siano considerati “cittadini uguali”. Come lo chiama lei questo atteggiamento? Io lo chiamo “doppio standard”.

Parteciperebbe a una manifestazione per chiedere maggior libertà per i cristiani nei Paesi del Medio Oriente?

Certo. Io negli scorsi anni ho scritto diversi articoli in arabo su questo argomento. Per me la questione centrale non è innanzitutto la libertà quanto la “cittadinanza”. I cristiani appartengono naturalmente alle società arabe e oggi non solo gli islamisti, ma anche gli Stati stessi devono riconoscere il diritto dei cristiani e degli ebrei alla piena cittadinanza.

CATTOLICI NELLA CULLA DELL’ISLAM

INTERVISTA A MONS. PAUL HINDER

dal Giornale del Popolo del 23 marzo 2005

Sembra un paradosso: proprio nella culla nell’Islam il cattolicesimo è più che mai fiorente. Uno scherzo? No, perché a raccontarlo è monsignor Paul Hinder, un cappuccino svizzero tedesco che il Papa lunedì ha nominato nuovo responsabile del vicariato apostolico d’Arabia. Il vicariato è la circoscrizione ecclesiastica più grande del mondo e comprende Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, Oman, Yemen e Arabia Saudita. Secondo le stime vi sarebbero circa 1,3 milioni di cattolici: tutti immigrati per lavoro. Sono soprattutto filippini, indiani e libanesi. Solo nella parrocchia di Abu Dhabi (capitale degli Emirati Arabi Uniti e sede del Vicariato) le nazionalità rappresentate sono 90. In altre occasioni Hinder, che si trova ad Abu Dhabi dall’anno scorso come vescovo ausiliare, ha raccontato che alla messa del Giovedì Santo a Dubai c’erano 30 mila persone.

Mons. Hinder: 30 mila persone, è sicuro?
Così mi hanno detto persone del luogo in grado di fare stime di questo genere.

Ma in Europa solo il Papa è in grado di radunare così tanti fedeli in una volta sola…
Certo! (ride) Ma non è stato un caso isolato: quest’anno alla messa di mezzanotte del 24 dicembre ad Abu Dhabi tutta la piazza antistante la chiesa e la chiesa stessa erano stipate. C’erano sicuramente almeno 10 mila persone, senza contare che il giorno di Natale abbiamo dovuto celebrare 16 messe. È veramente incredibile. Ma è proprio da questi momenti forti che si riesce ad intuire quanti siano i fedeli che abitano in queste zone. Per noi è sempre una sorpresa perché non abbiamo un’idea precisa di quanti siano in realtà.

Come vivono la loro fede i cattolici che abitano nella penisola araba?
La stragrande maggioranza la vive molto attivamente e qualche volta in modo più intenso di quanto non lo faccia nel proprio Paese di origine. Noi, a differenza che in Europa, non abbiamo difficoltà a riempire le chiese e non solo la domenica e al venerdì, ma anche durante la settimana.

La messa del venerdì?

Sì, noi la messa domenicale la celebriamo soprattutto al venerdì perché da noi si segue la scansione della settimana musulmana. È stata la gente a chiederci di spostarla, perché ci tiene a venire e la domenica non potrebbe.

Tanto entusiasmo e tanta gente, ma vi trovate comunque in Paesi a maggioranza musulmana…
La nostra presenza di Chiesa cattolica è volutamente di basso profilo. Anche dal punto di vista architettonico: le chiese non hanno il campanile non c’è la croce sul tetto… Questo fa parte della discrezione che ci è imposta dai governi locali. Essere discreti tuttavia non vuol dire essere trasparenti. La nostra scuola, per esempio, porta il nome di un santo: San Giuseppe, poi c’è quella di un ordine di suore arabe che gestiscono una scuola per arabi. Le nostre scuole sono apprezzate dalla società locale e ci sono anche alcuni sceicchi che mandano i loro figli da noi.

Anche gli sceicchi mandano i propri figli nelle scuole cattoliche?
Diciamo scuole “gestite” da cattolici, non è esattamente lo stesso. Il programma rimane quello delle scuole arabe e per i musulmani sono previste tre lezioni settimanali di religione musulmana. Cambia evidentemente il contesto educativo, perché il fatto che siano suore a gestire la scuola fa oggettivamente la differenza.

I giornali parlano di queste celebrazioni oceaniche?
Nel passato raramente, adesso capita che la stampa ne parli. Per esempio quando sono stato ordinato vescovo ad Abu Dhabi è apparsa una notizia (senza fotografia) su un giornale locale. Oppure i giornali hanno parlato di noi anche quando, per la morte dello sceicco Zayed (il fondatore e primo presidente degli Emirati Arabi Uniti), abbiamo celebrato una messa in suo suffragio e alla quale abbiamo invitato i membri del corpo diplomatico. Poi quando con il mio predecessore andammo a porgere le condoglianze al figlio dello sceicco, l’attuale presidente, andando vestiti come vescovi. Normalmente non possiamo ed è stata un’eccezione.

Questi comunque sono segnali positivi…

Certo, ma è anche nel loro interesse mostrare all’Occidente che negli Emirati esiste una certa libertà religiosa. La libertà effettiva, tuttavia, è minore di quella che si vuol far credere.

Come stanno le cose in verità?
La libertà del culto è limitata alle strutture che ci vengono concesse. I 70 mila cristiani degli Emirati Arabi possono esercitare la loro fede solo all’interno della chiesa di Abu Dhabi. Non abbiamo diritto, ad esempio, di affittare liberamente una casa o un hall di un albergo per celebrare una messa in un altro punto del Paese. Questo è un problema serio per noi che abbiamo così tanti fedeli. Avremmo bisogno di più spazio per costruire un’altra chiesa, ma fino a che non riceviamo dallo sceicco un terreno per farlo abbiamo le mani legate. Al di là di questo noi siamo riconoscenti di avere anche solo la possibilità di esistere. Poi la libertà religiosa in senso classico non esiste perché non c’è una libertà dell’individuo di scegliere la propria religione. Questa libertà è unilaterale: un cristiano può diventare musulmano, ma mai un musulmano potrebbe farsi cristiano.

E nel caso lo diventasse?
Rischierebbe la vita e dovrebbe guardarsi soprattutto dai propri parenti. Ma rischia ritorsioni e sanzioni anche chi decide di battezzarlo.

Sotto la sua responsabilità c’è anche l’Arabia Saudita, come vivono i cristiani che abitano nella culla dell’Islam?
Posso dire che la maggior parte dei cristiani che abitano nel vicariato che il Papa mi ha affidato abitano in Arabia Saudita. Molti di loro vivono intensamente la loro fede, ma lo fanno in gruppi privati: si tratta di una chiesa delle catacombe, come quella dei primi cristiani. Ma non posso dire nulla di più per ragioni di sicurezza.

Come sono i rapporti con le autorità religiose e politiche?
Generalmente buoni, anche ottimi. Non ci sono problemi ad incontrare membri dei governi. Ma anche se i rapporti sono buoni formalmente spesso è difficile ottenere quello che si chiede. Ho incontrato ultimamente il ministro per gli affari religiosi dell’Oman al quale ho chiesto un visto che mi permetta con più facilità di entrare nel Paese per incontrare i miei fedeli. C’è poi il problema dei fedeli che vivono lontano dalle nostre parrocchie e che di fatto non possono vivere la loro fede. Ho quindi chiesto che il Sultano ci conceda di poter dire la messa anche in altri luoghi che non siano le nostre cinque chiese nel Paese. Una delle ragioni di questa difficoltà è che il governo deve gestire i rapporti con i fondamentalisti islamici che si oppongono a queste aperture.
L’altra è che negli ultimi tempi alcune sètte cristiane hanno cominciato a fare proselitismo tra i musulmani. Questo al Governo non sta bene e anche noi ne subiamo le conseguenze.

Ha senso chiedere ai Paesi a maggioranza musulmana la reciprocità di trattamento dal punto di vista religioso?
Sì, sarebbe bello che i cristiani fossero trattati nei Paesi arabi come i musulmani lo sono in Occidente. Ma il grosso ostacolo è che nei Paesi arabi lo Stato non è concepito come in Occidente dove ognuno può professare la fede che sceglie in libertà. Ma questo non vuol dire che le cose non possano cambiare. Occorrerebbe però che i politici occidentali fossero un po’ più coraggiosi e insistessero affinché questi Paesi si aprano al principio della libertà religiosa o, almeno, della libertà di culto. Ho l’impressione che i nostri politici quando ci sono di mezzo gli affari, troppo spesso chiudano un occhio sulla difesa dei nostri valori che non sono di per sé valori cristiani, ma sono qualcosa acquistato durante la storia dell’occidente. Ciò che io aspetto è che i nostri politici non dimentichino, quando incontrano i vari sovrani dei Paesi arabi, di far loro presente questa cosa. Non con tono paternalistico, ma facendo presente, per esempio, che in un Paese come l’Arabia Saudita in cui quasi il 70 per cento della popolazione è immigrata per lavoro è assurdo non vi siano per gli stranieri libertà e diritti difendibili di fronte a un tribunale. Vi sono governanti arabi illuminati che percepiscono il problema e sarebbero pronti a portarlo avanti, ma hanno bisogno di un appoggio anche dall’esterno.

Cosa potrebbero fare i nostri politici in concreto?

Bastano semplici gesti. Se il presidente della Confederazione svizzera, o uno qualsiasi dei presidenti di una democrazia occidentale, in visita ufficiale negli Emirati Arabi andasse fare visita ad una chiesa cristiana, compirebbe un gesto che invierebbe un segnale molto forte.

Cosa la affascina di più del compito che le è affidato?
Mi affascina l’aspetto di chiesa pellegrina, multinazionale, multiculturale e multirituale. Questa ricchezza riflette in qualche modo la cattolicità della Chiesa. Mi affascina vedere il fervore della fede di questa gente. È commovente vedere persone costrette a vivere la propria fede in stato di clandestinità piangere di gioia perché vedono arrivare il vescovo per dire loro la messa.

Che cosa si sente di dire ai cattolici ticinesi?

Di essere, come diceva san Franceso ai cristiani che si trovavano presso “i saraceni”, dei testimoni credibili di Cristo nella società di oggi. E poi di essere coraggiosi: non abbiano vergogna di essere cattolici perché non penso che la Chiesa di oggi sia meno bella di quella del passato. E infine che godano della libertà di esprimere la propria fede, perché non è una libertà scontata.